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Disco music

(Nota: il seguente testo tratto dal libro DISCO STORY di Lucio Mazzi disponibile su www.luciomazzi.com:[1] - qui riportato su autorizzazione dell'autore - )
Nel 1979, Carlo Massarini scriveva: "La musica quest'anno si misura in battute al minuto, fra 122 e 144 la chiamano "Disco". Sembra che tutto il mondo abbia voglia di ballare. Disco la nuova maniera di dimenticare l'arrivo del 2000, la chiave per lasciarsi alle spalle gli anni '60. La prima massiccia alternativa danzante dai tempi del rock'n'roll. E, infine, la pi grossa operazione commerciale nel campo dello spettacolo da sempre...." (Popster, maggio 1979).

Era però abbastanza straordinario che una rivista “rock” come Popster dedicasse spazio alla disco: la disco era odiata dalla critica. Su questo nessuna discussione. A volte, come nel servizio di Massarini, veniva analizzata, assai raramente capita o addirittura apprezzata. In tutti gli altri (pochi) casi in cui ci se ne occupava, era stroncata. La disco era franata improvvisamente su un mondo musicale che aveva assistito alla morte del progressive rock di Genesis e King Crimson spazzato via dal nichilismo sonoro e filosofico del punk; che aveva visto l'incapacità di rinnovarsi della proposta di colore; che si ripeteva stanchissimamente nell'ambito del rock duro e che, in Italia, vedeva una crisi spaventosa della canzone d'autore. La critica, ancora ancorata agli assiomi impegnato = buono, disimpegnato = cattivo, nell'ossequio dei quali aveva vissuto per almeno un ventennio, non poteva accettare di buon grado una musica che aveva come obiettivi dichiarati 1) far divertire gli ascoltatori e 2) far arricchire artisti e discografici! Ma stiamo scherzando? E l'impegno "disinteressato" dei cantautori con sacco a pelo (e tra questi ci mettiamo proprio tutti, da Dylan a De Gregori)? e la rivolta sociale di Sex Pistols e compagni? e le ricerche filologico-musicali del folk inglese (Steely Dan, Fairport Convention e tutte quelle cose lì), le meditazioni intellettual-sperimentalistiche di Eno e dei "cosmici" tedeschi? Tutto spazzato via da canzonette nelle quali bastava fare il verso a Paperino (Disco duck) per vendere milioni di copie, canzonette magari eseguite da personaggi che adottavano sfrontatamente sigle irridenti come Rick Dees And His Cast of Idiots!!! No tutto questo non poteva certo passare, e infatti non passò. Cio. Non passò sui giornali rock "seri" (tipo il citato Popster), ché nelle nascenti discoteche, nelle ultime "feste in casa", negli stereo dei ragazzini, nelle prime radio private, passava eccome!!! Ma come si era giunti a tutto ciò?

PHILADELPHIA, MIAMI, NY

Fin dall'inizio degli anni '70 ci troviamo di fronte ad un vistoso mutamento della musica nera. Prendono sempre pi piede gli arrangiamenti orchestrali, i climi si fanno pi dolci e leggeri, il kitsch assurge a ruolo di status. Tutto ciò riflette probabilmente un benessere, sconosciuto nei decenni precedenti, che stempera fino a sopirle le istanze di protesta sociale della gente di colore. Mentre il rhythm'n'blues evolveva verso il funky e prendeva una sua propria strada, a Los Angeles nasceva la 20th Century di Barry White; a Philadelphia gruppi come gli O' Jays, i MFSB e solisti come Teddy Pendergrass e Billy Paul legittimavano la nascita di un vero movimento (il Philly Sound); a Miami, soprattutto grazie all'etichetta TK Records, esplodevano Timmy Thomas, George McCrae e K.C. & The Sunshine Band; a New Orleans Allen Toussaint nei suoi Sea Studios costruiva fenomeni come Labelle e Pointer Sisters, e a New York, negli uffici di etichette come la Salsoul, Prelude o WestEnd e nei locali gay si cominciava a parlare di disco music.

A Philadelphia, Gamble e Huff erano in pista fin dalla metà degli anni '60. Era stato in quel periodo che i due avevano iniziato a sperimentare le soluzioni sonore che, dieci anni dopo, sarebbero state proprie del cosiddetto Philly Sound: soprattutto il loro lavoro con Jerry Butler (co-fondatore assieme a Curtis Mayfield degli Impressions) dimostra come i due avessero le idee molto chiare sulla strada da seguire. L'uso dell'orchestra sposata perfettamente alla ritmica, gli arrangiamenti sofisticati, la grande dinamica, la melodia accattivante, caratterizzavano quei primi prodotti come avrebbero caratterizzato, poi, quelli degli O' Jais o del MFSB. I nomi di punta dell'etichetta erano Billy Paul e Teddy Pendergrass come solisti, gli O'Jays, le Three Degrees e i Blue Notes di Harold Melvin come gruppi. C'era poi una house band che collaborava alle incisioni di tutti. Fu proprio questa house band di una cinquantina di elementi, la Mother Father Sister & Brother (MFSB), che nel '74 fece conoscere a tutti quale fosse il suono che avevano in mente Gamble e Huff. Avvenne quando portò ai primi posti delle classifiche di tutto il mondo un singolo dal titolo programmatico: TSOP, cio The sound of Philadelphia.

Nel 1974 raggiunse improvvisamente la cima delle classifiche tale George McCrae con il brano (disco, of course) Rock your baby. McCrae veniva da Miami. Se Philadelphia aveva la Philadelphia International e la premiata coppia Gamble & Huff, Miami aveva la TK Records e Henry Stone. Alla TK viene universalmente riconosciuto di aver evoluto le caratteristiche del rhythm'n'blues in un genere che successivamente sarebbe stato identificato come "disco". Miami in una posizione geograficamente e musicalmente strategica: a due passi da Memphis non può non risentire della sua influenza, ma, a poche miglia dal Centroamerica non può ignorare il reggae, il calypso e i ritmi afrocubani che da lì arrivano. E' per questo che le produzioni musicali di quella città hanno un suono del tutto caratteristico, cosa di cui si sarebbe accorto, anni dopo, anche il rock, nel momento in cui nei suo studi si sarebbero rivitalizzati personaggi come Eric Clapton, gli Eagles o i Bee Gees. La disco quindi si creava (soprattutto) a Philadelphia e a Miami. E poi, come si diceva allora, si ballava a New York! Nella prima metà degli anni '70, la disco music era ancora destinata essenzialmente alle minoranze. Detto così fa effetto: uno dei fenomeni musicali di maggior successo e diffusione era in origine solo una musica per neri, ispanici e, soprattutto, gay. Ma tant': fu soprattutto negli ambienti omosessuali che questa musica, all'inizio, si sviluppò. Nell'America degli anni '60, ai gay erano vietate le effusioni in pubblico e per una coppia omosessuale il solo entrare in un locale pubblico rappresentava una sorta di avventura, certo un rischio. Erano nati per questa ragione locali esclusivi nei quali era loro possibile ritrovarsi, bere e ascoltare musica. Per evitare le pause di silenzio tra un disco e l'altro del juke box, a qualcuno era venuto in mente di compilare delle colonne sonore continue: si trattava dei primi rudimentali missaggi. La musica di quelle colonne sonore era la disco. A poco a poco, ciò che in origine non era che un sottofondo, prese a diventare la caratteristica principale di quei locali. Stavano nascendo le discoteche. Anche se Boston reclama la prima discoteca aperta nel 1971, soprattutto a New York, i primi locali destinati a questa musica (Loft, 10th Floor, Ice Palace sull’isola Fire Islands, “regno” estivo dei gay della città) nacquero proprio in questa maniera. E, naturalmente, anche se buona parte dei locali newyorkesi rimasero per molti anni gay oriented (Flamingo, West 12, Paradise Garage, il mitico Studio 54), le discoteche non restarono a lungo dominio esclusivo della gente nera, ispanica od omosessuale: quando il fenomeno esplose, coinvolse qualsiasi strato della popolazione senza differenze di razza, sesso o ceto.

E VENNERO I BEE GEES

Ancora nel '76, la disco music era di quasi esclusivo appannaggio della gente di colore: aveva un grande riscontro ma non ancora quel successo planetario che avrebbe avuto un anno dopo. Nel '78, invece, la disco dominava qualsiasi classifica, invadeva la programmazione di qualsiasi stazione radio, faceva da sfondo agli spot pubblicitari, influenzava pesantemente la produzione musicale di artisti decisamente rock (dai Rolling Stones a David Bowie, da Rod Stewart ai Chicago, dai Doobie Brothers a Elton John). Cos'era successo? Esattamente quello che era successo con il rock'n'roll negli anni '50: perché un fenomeno musicale di derivazione nera assurgesse a popolarità mondiale, fu necessario che di quel fenomeno si appropriassero dei musicisti bianchi. Nei fifties era stato Elvis, vent'anni dopo, nella disco, furono i Bee Gees. I Bee Gees non erano nati con il fenomeno disco e non possono essere considerati immediatamente artisti disco. Fu nel '75 che, alla disperata ricerca di qualcosa che riportasse in auge i tre fratelli dopo i trionfi degli anni ’60 e i tonfi dei primi anni ‘70, Robert Stigwood ebbe la grande idea: ingaggiò il produttore Arif Mardin che confezionò per i Maurice, Robin e Barry l'album "Main Course". E, miracolo, i vecchi Bee Gees melodici e languidi non c'erano pi! Il loro pop bianco si era trasformato in un funky di facile presa che faceva faville, tanto che il singolo Mr. Jive li portò in vetta alle classifiche USA. Allora era quello il trucco! Un trucco che si chiamava disco music, musica per ballare, per divertire, impossibile da ascoltare senza battere il piedino... L'album successivo fu quello dell'esplosione: si intitolava "Children Of The World" e conteneva il singolo You should be dancin'. Album e singolo vendettero milioni di copie in tutto il mondo consacrando la disco music come nuovo fenomeno in tutto il pianeta. E naturalmente regalando ai Bee Gees una nuova giovinezza (e un bel conto in banca). Un dato, sopra tutti, può dare l'idea della portata del "fenomeno Bee Gees": nel 1978 i fratelli ebbero ben 5 canzoni da loro scritte prodotte e/o arrangiate, contemporaneamente nella top ten e per 4 settimane consecutive: un'impresa che, prima di loro, era riuscita solo ai Beatles e che nessuno ha pi ripetuto (almeno finora).

Robert Stigwood aveva certo visto giusto nell'imporre una svolta disco ai Bee Gees, ma forse, in quel momento, non aveva ancora capito la portata del fenomeno. Ad aprirgli gli occhi fu forse una inchiesta che rivelava ai lettori esterrefatti che tutto ciò che essi pensavano della giovent americana (dei loro figli, alla fine) era improvvisamente vecchio e superato. Se qualcuno pensava ancora ai giovani con capelli lunghi impegnati a rollarsi una canna di marijuana e ad ascoltare rock sognando la California, doveva mettere avanti l'orologio! Ora i giovani si imbrillantinavano i capelli, si vestivano magari in maniera bizzarra ma ricercatissima, e passavano le nottate in discoteca a ballare una nuova musica nata per le minoranze nere! Se era questa la nuova tendenza, tanto valeva sfruttare la scia, e Stigwood pensò ad un film. Ed era abbastanza ovvio che, nel momento di provvedere alla colonna sonora, convocasse i musicisti disco che lui aveva portato ad essere i pi venduti al mondo. I Bee Gees ci si misero di buzzo buono e l'album vendette oltre trenta milioni di copie. Il film era "Saturday night fever". "Saturday night fever" uscì dapprima in USA nel 1977. Pochi mesi dopo aveva già invaso le sale cinematografiche di tutto il mondo (in Italia, come "La febbre del sabato sera", arrivò nella primavera del 1978). Diretta da John Badham, la pellicola narra di un commesso di ferramenta di origine italiana, Tony Manero (John Travolta), che trova la propria realizzazione nel ballo in discoteca. Dopo inevitabili traversie, vince un concorso di ballo, dona il trofeo vinto a costo di tante fatiche a ballerini pi meritevoli, riesce a conquistare la ragazza del cuore, si trasferisce a Manhattan e mette la testa a posto. Non si può certo gridare al capolavoro, ma quello che funzionava non era tanto la vicenda di Manero/Travolta (nuovo sex symbol degli anni '70) con i suoi crucci amorosi o la sua avvenenza un po' cavallina: era la musica e le scene di ballo in discoteca (tra parentesi, il film fu girato al 2001 Odyssey Disco a Brooklyn, il club dove avevano debuttato i Village People il 28 febbraio 1977). Le coreografie di Lester Wilson divennero il modello su cui milioni di disco-fans si esercitarono per anni, il vestito con gilet bianco e la camicia nera diventarono il loro look e il ditino alzato di Travolta il simbolo stesso della disco music. Naturalmente "Saturday night fever" diede la stura a migliaia di pellicole che cercarono di sfruttare l'onda. Solo in Italia uscirono in pochi mesi: "American fever" di Claudio De Molinis, "Baila guapa" di Al Midweg, "Brillantina rock" di Massimo Tarantini, "Disco delirio" di Oscar "Roy" Righini, "I ragazzi della discoteca" di Amasi Damiani, "Rock'n'roll" di Vittorio De Sisti e" John Travolto da un insolito destino"(!) di Neri Parenti.

MA COS'E' QUESTA DISCO?

Nel momento in cui la disco music divenne un fenomeno mondiale, qualcuno iniziò a chiedersi da dove fosse saltata fuori questa nuova musica. Immediatamente si pensò fosse una figlia pi o meno degenere del rhythm'n'blues, ma la parentela non era forse così stretta. Certamente il R'n'B la "madre" di qualsiasi musica nera ritmica, ma forse la sua pi diretta derivazione fu, in quegli anni, come detto all'inizio, il funky, pi che la disco. Quest'ultima rappresentava, invece, un confluire di musiche e stili diversi: funky, soul, influenze tropicali (soprattutto nella disco di Miami) e pop bianco anche tradizionale (Burt Bacharach, Mantovani e quelle cose lì). Gli hit disco, al di là delle peculiarità sonore delle "scuole" viste prima, avevano alcune caratteristiche distintive comuni: - un ritmo tra le 120 e le 140 battute al minuto (non velocissimo, dunque) - una melodia sempre molto accattivante (una caratteristica che la musica da discoteca avrebbe perso gradatamente a partire dal decennio successivo) - una configurazione ritmica quasi sempre caratterizzata dalla classica cassa "in quattro" (vale a dire un colpo ogni misura, che con battute tipicamente in quattro quarti significava quattro colpi a battuta) e il charleston sulla misura "in levare" (YMCA dei Village People ne un esempio tipico). Poi la disco europea (e in particolare quella tedesca) utilizzava soprattutto strumenti elettronici e i primi sintetizzatori, mentre quella americana era pi legata ad una tradizione fatta di fiati, basso, batteria (e nel caso di Philadelphia, orchestre d'archi) "veri". La disco americana prevedeva brani tradizionalmente di 3-4 minuti, mentre quella europea amava le "suite alla Cerrone" anche di 15-20 minuti, ma questi erano dettagli.

I DETRATTORI

Fu con la diffusione a livello mondiale della disco music che iniziarono le prime crociate contro di essa. Tuttavia, naturalmente, un fenomeno musicale che era nato essenzialmente con presupposti commerciali non poteva certo farsi smontare dalla stroncatura di qualche critico rimasto indietro con l'orologio. Va comunque detto che non erano solo i critici paludati a bocciare senza pietà la disco music: per le stesse ragioni espresse dai "loro" giornali, i fans del rock non potevano sopportare i cosiddetti "travoltini". Ricordiamo che in quel periodo imperava il punk e probabilmente non esiste musica che sia pi distante, sotto tutti i punti di vista (tecnico, artistico, ideologico, sociale...), dalla disco. Almeno in Italia, il fenomeno assunse anche decise connotazioni sociali e, quasi necessariamente, colorazioni politiche. La disco non era roba a basso prezzo. Il rock stava vivendo la sua sciagurata era della "musica gratis" con gli sfondamenti ai concerti per l'assurda pretesa di assistervi gratis (con l'unico risultato di sloggiare per anni gli show dalle piazze e dai palasport italiani, a forza di tumulti e molotov sul palco). Le polemiche sul costo ritenuto troppo alto dei biglietti riempivano le pagine e le rubriche delle "lettere al direttore" dei giornali musicali, mentre invece il popolo della disco non aveva mai fatto questione di prezzo. Eppure entrare in discoteca costava mediamente di pi che andare ad un concerto, e il solo fatto di frequentare la pista da ballo presupponeva un abbigliamento "alla moda" che non era a buon mercato. Questo comportava che, costando di pi, la musica disco fosse una cosa "da ricchi". Quindi di destra (all'epoca tali deduzioni erano assolutamente automatiche). Chi la disco non poteva o, soprattutto, non voleva permettersela era, automaticamente, di sinistra. In particolare i giovani comunisti, sostenuti dalla propaganda delle loro riviste "alternative" contestavano accesamente alla disco di essere l'ennesima espressione del "neo-fascismo colonialista e capitalista americano". Il periodico di sinistra "La città futura" stigmatizzava, nel ballo, la sua pretesa funzione di "crescita sociale" (chi balla bene ha pi successo quindi cresce socialmente), confondendo tranquillamente e chissà quanto in buona fede quella che era la vicenda personale di Tony Manero con la semplice e naturale voglia dei ragazzi di divertirsi con una musica che a loro piaceva. Poi certo, se uno si muoveva bene in discoteca poteva "cuccare" di pi, ma perché dare una connotazione politica a un fatto inevitabile come questo? Forse difficile per i ragazzi di oggi capire questa mentalità, ma, in quel periodo, proprio tutto finiva per avere una patente politica: anche le cose che c'entravano meno con la politica finivano per diventare emblemi politici. Il loden era di destra e l'eskimo di sinistra, ad esempio, la cuffia di sinistra e il berretto di destra, la sciarpa (possibilmente rossa) lunga fino ai piedi era di sinistra, le scarpe Clark autentiche erano di destra, quelle "taroccate" di sinistra (e questo non valeva solo per le scarpe), il motorino College Prototipo era di destra, il Solex (o, meglio ancora, la bicicletta) di sinistra e via di questo passo. Questa chiusura totalitaria del popolo della sinistra giovanile non durò molto: le ammiccanti luci della discoteca finirono per attirare anche coloro i quali (ce n'erano, ce n'erano) giravano col "Libretto rosso dei pensieri di Mao" nella tasca posteriore dei jeans (non Levis, comunque: erano di destra!).

EURODISCO

Verso la fine degli anni '70 la disco music non era pi solo affare degli Stati Uniti, ma un fenomeno mondiale. In particolare spazzò l'Europa come un ciclone creando miti (pi tra i produttori che tra gli artisti, invero) e portando curiosamente ai vertici delle classifiche produzioni di quei paesi che fino a quel momento non avevano avuto nessun credito musicale o quasi: Italia (dopo gli anni d'oro di Nel blu dipinto di blu o Quando quando quando), Germania e Francia. L'Inghilterra da questo fenomeno restò curiosamente quasi del tutto assente. Va detto che per una questione di... tempi tecnici, la disco in Europa ebbe un grosso sviluppo solo alla fine degli anni '70 e con il nuovo decennio prese immediatamente la strada di un pop bianco, sintetico e spesso strettamente imparentato con la new wave (ancorché sempre danzereccio) che comunque con la disco aveva ormai pochissimo da spartire. Ma se la disco vera e propria in Europa durò solo pochi anni, furono comunque anni leggendari. Non a caso i nomi di produttori come Giorgio Moroder (in Germania), Michael Cretu, Cerrone, Jacques Morali (in Francia), Claudio Cecchetto, Celso Valli, Paul Micioni, i fratelli La Bionda e Mauro Malavasi (in Italia) sono rimasti nella storia.

La disco music in Italia arrivò quasi per caso e solo perché a Mauro Malavasi fu chiesto da un cantante di balera (Marzio, poi ribattezzato Macho) di arrangiare un pezzo di dieci anni prima (I’m a man) secondo "quei nuovi ritmi che andavano in America". E' vero che contemporaneamente i fratelli La Bionda con Naggiar realizzavano One for you one for me, ma da Malavasi in poi che la dance italiana dei vari Peter Jacques Band, D.D. Sound, Easy Going, Macho, Change ebbe una vera credibilità all'estero e soprattutto in America. I pezzi venivano concepiti qua, provinati qua, ma realizzati a New York, perché comunque forse alla fine agli studi italiani mancava sempre qualcosa. Probabilmente questo che diede alle produzioni di Malavasi quel respiro internazionale che permise di aprire la strada a quelle degli altri che, dopo di lui, proseguirono, anche con molta fortuna, in quella stessa direzione Da qui le decine di hit, anche di tanti artisti-prestanome molti dei quali mai cantarono una nota. Tra i maggiori successi dell'epoca: One for you one for me dei La Bionda, Disco Bass dei D.D. Sound (che erano sempre i La Bionda), He's speedy like Gonzales dei Passengers, I'm a man di Macho, Proud Mary e N.Y. dei Nuggets prodotti da Celso Valli e mille altri. Si era già alla fine degli anni '70, però: la dance italiana esplose veramente un poco dopo con i vari Den Harrow e Sandy Marton, ma la loro musica non aveva pi niente a che vedere con la disco.

THE BIGGER THEY ARE, THE HARDER THEY FALL CIOE': FINALE E MORALE

Il fenomeno che nella seconda metà degli anni '70 sembrava assolutamente inarrestabile si spense poi molto rapidamente. I ritmi da discoteca si fecero tecnicizzati allo spasimo e la musica nera ritrovò la propria strada ricongiungendosi al funky e al R'n'B pi nobili che nel frattempo non erano mai morti, dando origine allo psychofunky di Prince, al pop nero di Michael Jackson e soprattutto al rap con le sue infinite diramazioni. I discografici trovarono altre mode con cui fare soldi, i dj altre musiche con cui far ballare. Di tutte le grandi star della disco, pur con molte difficoltà e ben lontane dalla vetta delle classifiche, rimasero solo quelle il cui valore artistico aveva legittimato il proseguimento di una carriera oltre una moda finita, come tutte le mode, in niente.


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