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CANTO VENTITREESIMO


1
Studisi ognun giovare altrui; che rade volte il ben far senza il suo premio fia: e se pur senza, almen non te ne accade morte né danno né ignominia ria. Chi nuoce altrui, tardi o per tempo cade il debito a scontar, che non s'oblia. Dice il proverbio, ch'a trovar si vanno gli uomini spesso, e i monti fermi stanno.

2
Or vedi quel ch'a Pinabello avviene per essersi portato iniquamente: è giunto in somma alle dovute pene, dovute e giuste alla sua ingiusta mente. E Dio, che le più volte non sostiene veder patire a torto uno innocente, salvò la donna; e salverà ciascuno che d'ogni fellonia viva digiuno.

3
Credette Pinabel questa donzella già d'aver morta, e colà giù sepulta; né la pensava mai veder, non ch'ella gli avesse a tor degli error suoi la multa. Né il ritrovarsi in mezzo le castella del padre, in alcun util gli risulta. Quivi Altaripa era tra monti fieri vicina al tenitorio di Pontieri.

4
Tenea quell'Altaripa il vecchio conte Anselmo, di ch'uscì questo malvagio, che, per fuggir la man di Chiaramonte, d'amici e di soccorso ebbe disagio. La donna al traditore a piè d'un monte tolse l'indegna vita a suo grande agio; che d'altro aiuto quel non si provede, che d'alti gridi e di chiamar mercede.

5
Morto ch'ella ebbe il falso cavalliero che lei voluto avea già porre a morte, volse tornare ove lasciò Ruggiero; ma non lo consentì sua dura sorte, che la fe' traviar per un sentiero che la portò dov'era spesso e forte, dove più strano e più solingo il bosco, lasciando il sol già il mondo all'aer fosco.

6
Né sappiendo ella ove potersi altrove la notte riparar, si fermò quivi sotto le frasche in su l'erbette nuove, parte dormendo, fin che 'l giorno arrivi, parte mirando ora Saturno or Giove, Venere e Marte e gli altri erranti divi; ma sempre, o vegli o dorma, con la mente contemplando Ruggier come presente.

7
Spesso di cor profondo ella sospira, di pentimento e di dolor compunta, ch'abbia in lei, più ch'amor, potuto l'ira.

8
Queste ed altre parole ella non tacque, e molto più ne ragionò col core. Il vento intanto di sospiri, e l'acque di pianto facean pioggia di dolore. Dopo una lunga aspettazion pur nacque in oriente il disiato albore: ed ella prese il suo destrier ch'intorno giva pascendo, ed andò contra il giorno.

9
Né molto andò, che si trovò all'uscita del bosco, ove pur dianzi era il palagio, là dove molti dì l'avea schernita con tanto error l'incantator malvagio. Ritrovò quivi Astolfo, che fornita la briglia all'ippogrifo avea a grande agio, e stava in gran pensier di Rabicano, per non sapere a chi lasciarlo in mano.

10
A caso si trovò che fuor di testa l'elmo allor s'avea tratto il paladino; sì che tosto ch'uscì de la foresta, Bradamante conobbe il suo cugino. Di lontan salutollo, e con gran festa gli corse, e l'abbracciò poi più vicino; e nominossi, ed alzò la visiera, e chiaramente fe' veder ch'ell'era.

11
Non potea Astolfo ritrovar persona a chi il suo Rabican meglio lasciasse, perché dovesse averne guardia buona e renderglielo poi come tornasse, de la figlia del duca di Dordona; e parvegli che Dio gli la mandasse. Vederla volentier sempre solea, ma pel bisogno or più ch'egli n'avea.

12
Da poi che due o tre volte ritornati fraternamente ad abbracciar si foro, e si for l'uno a l'altro domandati con molta affezion de l'esser loro, Astolfo disse: - Ormai, se dei pennati vo' 'l paese cercar, troppo dimoro: - ed aprendo alla donna il suo pensiero, veder le fece il volator destriero.

13
A lei non fu di molta maraviglia veder spiegare a quel destrier le penne; ch'altra volta, reggendogli la briglia Atlante incantator, contra le venne; e le fece doler gli occhi e le ciglia: sì fisse dietro a quel volar le tenne quel giorno, che da lei Ruggier lontano portato fu per camin lungo e strano.

14
Astolfo disse a lei, che le volea dar Rabican, che sì nel corso affretta, che, se scoccando l'arco si movea, si solea lasciar dietro la saetta; e tutte l'arme ancor, quante n'avea, che vuol che a Montalban gli le rimetta, e gli le serbi fin al suo ritorno; che non gli fanno or di bisogno intorno.

15
Volendosene andar per l'aria a volo, aveasi a far quanto potea più lieve. Tiensi la spada e 'l corno, ancor che solo bastargli il corno ad ogni risco deve. Bradamante la lancia che 'l figliuolo portò di Galafrone, anco riceve; la lancia che di quanti ne percuote fa le selle restar subito vote.

16
Salito Astolfo sul destrier volante, lo fa mover per l'aria lento lento; indi lo caccia sì, che Bradamante ogni vista ne perde in un momento. Così si parte col pilota inante il nochier che gli scogli teme e 'l vento; e poi che 'l porto e i liti a dietro lassa, spiega ogni vela e inanzi ai venti passa.

17
La donna, poi che fu partito il duca, rimase in gran travaglio de la mente; che non sa come a Montalban conduca l'armatura e il destrier del suo parente; però che 'l cuor le cuoce e le manuca l'ingorda voglia e il desiderio ardente di riveder Ruggier, che, se non prima, a Vallombrosa ritrovar lo stima.

18
Stando quivi suspesa, per ventura si vede inanzi giungere un villano, dal qual fa rassettar quella armatura, come si puote, e por su Rabicano; poi di menarsi dietro gli diè cura i duo cavalli, un carco e l'altro a mano: ella n'avea duo prima; ch'avea quello sopra il qual levò l'altro a Pinabello.

19
Di Vallombrosa pensò far la strada, che trovar quivi il suo Ruggier ha speme; ma qual più breve o qual miglior vi vada, poco discerne, e d'ire errando teme. Il villan non avea de la contrada pratica molta; ed erreranno insieme. Pur andare a ventura ella si messe, dove pensò che 'l loco esser dovesse.

20
Di qua di là si volse, né persona incontrò mai da domandar la via. Si trovò uscir del bosco in su la nona dove un castel poco lontan scoprìa, il qual la cima a un monticel corona. Lo mira, e Montalban le par che sia: ed era certo Montalbano; e in quello avea la matre ed alcun suo fratello.

21
Come la donna conosciuto ha il loco, nel cor s'attrista, e più ch'i' non so dire: sarà scoperta, se si ferma un poco, né più le sarà lecito a partire; se non si parte, l'amoroso foco l'arderà sì, che la farà morire: non vedrà più Ruggier, né farà cosa di quel ch'era ordinato a Vallombrosa.

22
Stette alquanto a pensar; poi si risolse di voler dar a Montalban le spalle: e verso la badia pur si rivolse, che quindi ben sapea qual era il calle. Ma sua fortuna, o buona o trista, volse che prima ch'ella uscisse de la valle, scontrasse Alardo, un de' fratelli sui; né tempo di celarsi ebbe da lui.

23
Veniva da partir gli alloggiamenti per quel contado a cavallieri e a fanti; ch'ad istanza di Carlo nuove genti fatto avea de le terre circostanti. I saluti e i fraterni abbracciamenti con le grate accoglienze andaro inanti; e poi, di molte cose a paro a paro tra lor parlando, in Montalban tornaro.

24
Entrò la bella donna in Montalbano, dove l'avea con lacrimosa guancia Beatrice molto desiata invano, e fattone cercar per tutta Francia. Or quivi i baci e il giunger mano a mano di matre e di fratelli estimò ciancia verso gli avuti con Ruggier complessi, ch'avrà ne l'alma eternamente impressi.

25
Non potendo ella andar, fece pensiero ch'a Vallombrosa altri in suo nome andasse immantinente ad avisar Ruggiero de la cagion ch'andar lei non lasciasse; e lui pregar (s'era pregar mestiero) che quivi per suo amor si battezzasse, e poi venisse a far quanto era detto, sì che si desse al matrimonio effetto.

26
Pel medesimo messo fe' disegno di mandar a Ruggiero il suo cavallo, che gli solea tanto esser caro: e degno d'essergli caro era ben senza fallo; che non s'avria trovato in tutto 'l regno dei Saracin, né sotto il signor Gallo, più bel destrier di questo o più gagliardo, eccetti Brigliador, soli, e Baiardo.

27
Ruggier, quel dì che troppo audace ascese su l'ippogrifo, e verso il ciel levosse, lasciò Frontino, e Bradamante il prese (Frontino, che 'l destrier così nomosse); mandollo a Montalbano, e a buone spese tener lo fece, e mai non cavalcosse, se non per breve spazio e a picciol passo; sì ch'era più che mai lucido e grasso.

28
Ogni sua donna tosto, ogni donzella pon seco in opra, e con suttil lavoro fa sopra seta candida e morella tesser ricamo di finissimo oro; e di quel cuopre ed orna briglia e sella del buon destrier: poi sceglie una di loro figlia di Callitrefia sua nutrice, d'ogni secreto suo fida uditrice.

29
Quanto Ruggier l'era nel core impresso, mille volte narrato avea a costei; la beltà, la virtude, i modi d'esso esaltato l'avea fin sopra i dei. A sé chiamolla, e disse: - Miglior messo a tal bisogno elegger non potrei; che di te né più fido né più saggio imbasciator, Ippalca mia, non aggio. -

30
Ippalca la donzella era nomata.

31
Montar la fece s'un ronzino, e in mano la ricca briglia di Frontin le messe: e se sì pazzo alcuno o sì villano trovasse, che levar le lo volesse; per fargli a una parola il cervel sano, di chi fosse il destrier sol gli dicesse; che non sapea sì ardito cavalliero, che non tremasse al nome di Ruggiero.

32
Di molte cose l'ammonisce e molte, che trattar con Ruggier abbia in sua vece; le qual poi ch'ebbe Ippalca ben raccolte, si pose in via, né più dimora fece. Per strade e campi e selve oscure e folte cavalcò de le miglia più di diece; che non fu a darle noia chi venisse, né a domandarla pur dove ne gisse.

33
A mezzo il giorno, nel calar d'un monte, in una stretta e malagevol via si venne ad incontrar con Rodomonte, ch'armato un piccol nano e a piè seguia. Il Moro alzò vêr lei 1'altiera fronte, e bestemmiò l'eterna Ierarchia, poi che sì bel destrier, sì bene ornato, non avea in man d'un cavallier trovato.

34
Avea giurato che 'l primo cavallo torria per forza, che tra via incontrasse. Or questo è stato il primo; e trovato hallo più bello e più per lui, che mai trovasse: ma torlo a una donzella gli par fallo; e pur agogna averlo, e in dubbio stasse. Lo mira, lo contempla, e dice spesso:

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36
Il qual, se sarà ver, come tu parli, che sia sì forte, e più d'ogn'altro vaglia, non che il destrier, ma la vettura darli converrammi, e in suo albitrio fia la taglia. Che Rodomonte io sono, hai da narrarli, e che, se pur vorrà meco battaglia, mi troverà; ch'ovunque io vada o stia, mi fa sempre apparir la luce mia.

37
Dovunque io vo, sì gran vestigio resta, che non lo lascia il fulmine maggiore. - Così dicendo, avea tornate in testa le redine dorate al corridore: sopra gli salta; e lacrimosa e mesta rimane Ippalca, e spinta dal dolore minaccia Rodomonte e gli dice onta: non l'ascolta egli, e su pel poggio monta.

38
Per quella via dove lo guida il nano per trovar Mandricardo e Doralice, gli viene Ippalca dietro di lontano, e lo bestemmia sempre e maledice. Ciò che di questo avvenne, altrove è piano. Turpin, che tutta questa istoria dice, fa qui digresso, e torna in quel paese dove fu dianzi morto il Maganzese.

39
Dato avea a pena a quel loco le spalle la figliuola d'Amon, ch'in fretta gìa, che v'arrivò Zerbin per altro calle con la fallace vecchia in compagnia: e giacer vide il corpo ne la valle del cavallier, che non sa già chi sia; ma, come quel ch'era cortese e pio, ebbe pietà del caso acerbo e rio.

40
Giaceva Pinabello in terra spento, versando il sangue per tante ferite, ch'esser doveano assai, se più di cento spade in sua morte si fossero unite. Il cavallier di Scozia non fu lento per l'orme che di fresco eran scolpite a porsi in avventura, se potea saper chi l'omicidio fatto avea.

41
Ed a Gabrina dice che l'aspette; che senza indugio a lei farà ritorno. Ella presso al cadavero si mette, e fissamente vi pon gli occhi intorno; perché, se cosa v'ha che le dilette, non vuol ch'un morto invan più ne sia adorno, come colei che fu, tra l'altre note, quanto avara esser più femina puote.

42
Se di portarne il furto ascosamente avesse avuto modo o alcuna speme, la sopravesta fatta riccamente gli avrebbe tolta, e le bell'arme insieme. Ma quel che può celarsi agevolmente, si piglia, e 'l resto fin al cor le preme. Fra l'altre spoglie un bel cinto levonne, e se ne legò i fianchi infra due gonne.

43
Poco dopo arrivò Zerbin, ch'avea seguito invan di Bradamante i passi, perché trovò il sentier che si torcea in molti rami ch'ivano alti e bassi: e poco ormai del giorno rimanea, né volea al buio star fra quelli sassi; e per trovare albergo diè le spalle con l'empia vecchia alla funesta valle.

44
Quindi presso a dua miglia ritrovaro un gran castel che fu detto Altariva, dove per star la notte si fermaro, che già a gran volo inverso il ciel saliva. Non vi ster molto, ch'un lamento amaro l'orecchie d'ogni parte lor feriva; e veggon lacrimar da tutti gli occhi, come la cosa a tutto il popul tocchi.

45
Zerbino dimandonne, e gli fu detto che venut'era al cont'Anselmo aviso, che fra duo monti in un sentiero istretto giacea il suo figlio Pinabello ucciso. Zerbin, per non ne dar di sé sospetto, di ciò si finge nuovo, e abbassa il viso; ma pensa ben, che senza dubbio sia quel ch'egli trovò morto in su la via.

46
Dopo non molto la bara funèbre giunse, a splendor di torchi e di facelle, là dove fece le strida più crebre con un batter di man gire alle stelle, e con più vena fuor de le palpèbre le lacrime inundar per le mascelle: ma più de l'altre nubilose ed atre era la faccia del misero patre.

47
Mentre apparecchio si facea solenne di grandi esequie e di funèbri pompe, secondo il modo ed ordine che tenne l'usanza antiqua e ch'ogni età corrompe; da parte del signore un bando venne, che tosto il popular strepito rompe, e promette gran premio a chi dia aviso chi stato sia che gli abbia il figlio ucciso.

48
Di voce in voce e d'una in altra orecchia il grido e 'l bando per la terra scorse, fin che l'udì la scelerata vecchia che di rabbia avanzò le tigri e l'orse; e quindi alla ruina s'apparecchia di Zerbino, o per l'odio che gli ha forse,

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E lacrimando al ciel leva le mani, che 'l figliuol non sarà senza vendetta. Fa circundar l'albergo ai terrazzani; che tutto 'l popul s'è levato in fretta. Zerbin che gli nimici aver lontani si crede, e questa ingiuria non aspetta, dal conte Anselmo, che si chiama offeso tanto da lui, nel primo sonno è preso;

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e quella notte in tenebrosa parte incatenato, e in gravi ceppi messo. Il sole ancor non ha le luci sparte, che l'ingiusto supplicio è già commesso; che nel loco medesimo si squarte, dove fu il mal c'hanno imputato ad esso. Altra esamina in ciò non si facea: bastava che 'l signor così credea.

52
Poi che l'altro matin la bella Aurora l'aer seren fe' bianco e rosso e giallo, tutto 'l popul gridando: - Mora, mora, - vien per punir Zerbin del non suo fallo. Lo sciocco vulgo l'accompagna fuora, senz'ordine, chi a piede e chi a cavallo, e 'l cavallier di Scozia a capo chino ne vien legato in s'un piccol ronzino.

53
Ma Dio, che spesso gl'innocenti aiuta, né lascia mai ch'in sua bontà si fida, tal difesa gli avea già proveduta, che non v'è dubbio più ch'oggi s'uccida. Quivi Orlando arrivò, la cui venuta alla via del suo scampo gli fu guida. Orlando giù nel pian vide la gente che trae a morte il cavallier dolente.

54
Era con lui quella fanciulla, quella che ritrovò ne la selvaggia grotta, del re galego la figlia lssabella, in poter già de' malandrin condotta, poi che lasciato avea ne la procella del truculento mar la nave rotta: quella che più vicino al core avea questo Zerbin, che l'alma onde vivea.

55
Orlando se l'avea fatta compagna, poi che de la caverna la riscosse. Quando costei li vide alla campagna, domandò Orlando, chi la turba fosse.

56
E fattosegli appresso, domandollo per che cagione e dove il menin preso. Levò il dolente cavalliero il collo, e meglio avendo il paladino inteso, rispose il vero; e così ben narrollo, che meritò dal conte esser difeso. Bene avea il conte alle parole scorto ch'era innocente, e che moriva a torto.

57
E poi che 'ntese che commesso questo era dal conte Anselmo d'Altariva, fu certo ch'era torto manifesto; ch'altro da quel fellon mai non deriva. Ed oltre a ciò, l'uno era all'altro infesto per l'antiquissimo odio che bolliva tra il sangue di Maganza e di Chiarmonte; e tra lor eran morti e danni ed onte.

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59
La lucente armatura il Maganzese, che levata la notte avea a Zerbino, e postasela indosso, non difese contro l'aspro incontrar del paladino. Sopra la destra guancia il ferro prese: l'elmo non passò già, perch'era fino; ma tanto fu de la percossa il crollo, che la vita gli tolse e roppe il collo.

60
Tutto in un corso, senza tor di resta la lancia, passò un altro in mezzo 'l petto: quivi lasciolla, e la mano ebbe presta a Durindana; e nel drappel più stretto a chi fece due parti de la testa, a chi levò dal busto il capo netto; forò la gola a molti; e in un momento n'uccise e messe in rotta più di cento.

61
Più del terzo n'ha morto, e 'l resto caccia e taglia e fende e fiere e fora e tronca. Chi lo scudo, e chi l'elmo che lo 'mpaccia, e chi lascia lo spiedo e chi la ronca; chi al lungo, chi al traverso il camin spaccia; altri s'appiatta in bosco, altri in spelonca. Orlando, di pietà questo dì privo, a suo poter non vuol lasciarne un vivo.

62
Di cento venti (che Turpin sottrasse il conto), ottanta ne periro almeno. Orlando finalmente si ritrasse dove a Zerbin tremava il cor nel seno. S'al ritornar d'Orlando s'allegrasse, non si potria contare in versi a pieno. Se gli saria per onorar prostrato; ma si trovò sopra il ronzin legato.

63
Mentre ch'Orlando, poi che lo disciolse, l'aiutava a ripor l'arme sue intorno, ch'al capitan de la sbirraglia tolse, che per suo mal se n'era fatto adorno; Zerbino gli occhi ad Issabella volse, che sopra il colle avea fatto soggiorno, e poi che de la pugna vide il fine, portò le sue bellezze più vicine.

64
Quando apparir Zerbin si vide appresso la donna che da lui fu amata tanto, la bella donna che per falso messo credea sommersa, e n'ha più volte pianto; com'un ghiaccio nel petto gli sia messo, sente dentro aggelarsi, e triema alquanto: ma tosto il freddo manca, ed in quel loco tutto s'avampa d'amoroso fuoco.

65
Di non tosto abbracciarla lo ritiene la riverenza del signor d'Anglante; perché si pensa, e senza dubbio tiene ch'Orlando sia de la donzella amante. Così cadendo va di pene in pene, e poco dura il gaudio ch'ebbe inante: il vederla d'altrui peggio sopporta, che non fe' quando udì ch'ella era morta.

66
E molto più gli duol che sia in podesta del cavalliero a cui cotanto debbe; perché volerla a lui levar né onesta né forse impresa facile sarebbe. Nessuno altro da sé lassar con questa preda partir senza romor vorrebbe: ma verso il conte il suo debito chiede che se lo lasci por sul collo il piede.

67
Giunsero taciturni ad una fonte, dove smontaro e fer qualche dimora. Trassesi l'elmo il travagliato conte, ed a Zerbin lo fece trarre ancora. Vede la donna il suo amatore in fronte, e di subito gaudio si scolora; poi torna come fiore umido suole dopo gran pioggia all'apparir del sole.

68
E senza indugio e senza altro rispetto corre al suo caro amante, e il collo abbraccia; e non può trar parola fuor del petto, ma di lacrime il sen bagna e la faccia. Orlando attento all'amoroso affetto, senza che più chiarezza se gli faccia, vide a tutti gl'indizi manifesto ch'altri esser, che Zerbin, non potea questo.

69
Come la voce aver poté Issabella, non bene asciutta ancor l'umida guancia, sol de la molta cortesia favella, che l'avea usata il paladin di Francia. Zerbino, che tenea questa donzella con la sua vita pare a una bilancia, si getta a' piè del conte, e quello adora come a chi gli ha due vite date a un'ora.

70
Molti ringraziamenti e molte offerte erano per seguir tra i cavallieri, se non udian sonar le vie coperte dagli arbori di frondi oscuri e neri. Presti alle teste lor, ch'eran scoperte, posero gli elmi, e presero i destrieri: ed ecco un cavalliero e una donzella lor sopravien, ch'a pena erano in sella.

71
Era questo guerrier quel Mandricardo che dietro Orlando in fretta si condusse per vendicar Alzirdo e Manilardo, che 'l paladin con gran valor percusse: quantunque poi lo seguitò più tardo; che Doralice in suo poter ridusse, la quale avea con un troncon di cerro tolta a cento guerrier carchi di ferro.

72
Non sapea il Saracin però, che questo, ch'egli seguia, fosse il signor d'Anglante: ben n'avea indizio e segno manifesto ch'esser dovea gran cavalliero errante. A lui mirò più ch'a Zerbino, e presto gli andò con gli occhi dal capo alle piante; e i dati contrasegni ritrovando, disse: - Tu se' colui ch'io vo cercando.

73
Sono omai dieci giorni (gli soggiunse) che di cercar non lascio i tuo' vestigi: tanto la fama stimolommi e punse, che di te venne al campo di Parigi, quando a fatica un vivo sol vi giunse di mille che mandasti ai regni stigi; e la strage contò, che da te venne sopra i Norizi e quei di Tremisenne.

74
Non fui, come lo seppi, a seguir lento, e per vederti e per provarti appresso: e perché m'informai del guernimento c'hai sopra l'arme, io so che tu sei desso; e se non l'avessi anco, e che fra cento per celarti da me ti fossi messo, il tuo fiero sembiante mi faria chiaramente veder che tu quel sia. -

75

76
Ma poi che ben m'avrai veduto in faccia, all'altro desiderio ancora attendi: resta ch'alla cagion tu satisfaccia, che fa che dietro questa via mi prendi; che veggi se 'l valor mio si confaccia a quel sembiante fier che sì commendi. -

77
Il conte tuttavia dal capo al piede va cercando il pagan tutto con gli occhi: mira ambi i fianchi, indi l'arcion; né vede pender né qua né là mazze né stocchi. Gli domanda di ch'arme si provede, s'avvien che con la lancia in fallo tocchi. Rispose quel: - Non ne pigliar tu cura: così a molt'altri ho ancor fatto paura.

78
Ho sacramento di non cinger spada, fin ch'io non tolgo Durindana al conte; e cercando lo vo per ogni strada, acciò più d'una posta meco sconte. Lo giurai (se d'intenderlo t'aggrada) quando mi posi quest'elmo alla fronte, il qual con tutte l'altr'arme ch'io porto, era d'Ettòr, che già mill'anni è morto.

79
La spada sola manca alle buone arme: come rubata fu, non ti so dire. Or che la porti il paladino, parme; e di qui vien ch'egli ha sì grande ardire. Ben penso, se con lui posso accozzarme, fargli il mal tolto ormai ristituire. Cercolo ancor, che vendicar disio il famoso Agrican genitor mio.

80
Orlando a tradimento gli diè morte: ben so che non potea farlo altrimente. - Il conte più non tacque, e gridò forte:

81
Quantunque sia debitamente mia, tra noi per gentilezza si contenda: né voglio in questa pugna ch'ella sia più tua che mia; ma a un arbore s'appenda. Levala tu liberamente via,
s'avvien che tu m'uccida o che mi prenda. - Così dicendo, Durindana prese, e 'n mezzo il campo a un arbuscel l'appese.

82
Già l'un da l'altro è dipartito lunge, quanto sarebbe un mezzo tratto d'arco: già l'uno contra l'altro il destrier punge, né de le lente redine gli è parco: già l'uno e l'altro di gran colpo aggiunge dove per l'elmo la veduta ha varco. Parveno l'aste, al rompersi, di gielo; e in mille schegge andar volando al cielo.

83
L'una e l'altra asta è forza che si spezzi; che non voglion piegarsi i cavallieri, i cavallier che tornano coi pezzi che son restati appresso i calci interi. Quelli, che sempre fur nel ferro avezzi, or, come duo villan per sdegno fieri nel partir acque o termini de prati, fan crudel zuffa di duo pali armati.

84
Non stanno l'aste a quattro colpi salde, e mancan nel furor di quella pugna. Di qua e di là si fan l'ire più calde; né da ferir lor resta altro che pugna. Schiodano piastre, e straccian maglie e falde, pur che la man, dove s'aggraffi, giugna. Non desideri alcun, perché più vaglia, martel più grave o più dura tanaglia.

85
Come può il Saracin ritrovar sesto di finir con suo onore il fiero invito? Pazzia sarebbe il perder tempo in questo, che nuoce al feritor più ch'al ferito. Andò alle strette l'uno e l'altro, e presto il re pagano Orlando ebbe ghermito: lo strigne al petto; e crede far le prove che sopra Anteo fe' già il figliol di Giove.

86
Lo piglia con molto impeto a traverso: quando lo spinge, e quando a sé lo tira; ed è ne la gran colera sì immerso, ch'ove resti la briglia poco mira. Sta in sé raccolto Orlando, e ne va verso il suo vantaggio, e alla vittoria aspira: gli pon la cauta man sopra le ciglia del cavallo, e cader ne fa la briglia.

87
Il Saracino ogni poter vi mette, che lo soffoghi, o de l'arcion lo svella: negli urti il conte ha le ginocchia strette; né in questa parte vuol piegar né in quella. Per quel tirar che fa il pagan, costrette le cingie son d'abandonar la sella. Orlando è in terra, e a pena sel conosce: ch'i piedi ha in staffa, e stringe ancor le cosce.

88
Con quel rumor ch'un sacco d'arme cade, risuona il conte, come il campo tocca. Il destrier c'ha la testa in libertade, quello a chi tolto il freno era di bocca, non più mirando i boschi che le strade, con ruinoso corso si trabocca, spinto di qua e di là dal timor cieco; e Mandricardo se ne porta seco.

89
Doralice che vede la sua guida uscir dal campo e torlesi d'appresso, e mal restarne senza si confida, dietro, correndo, il suo ronzin gli ha messo. Il pagan per orgoglio al destrier grida, e con mani e con piedi il batte spesso; e, come non sia bestia, lo minaccia perché si fermi, e tuttavia più il caccia.

90
La bestia, ch'era spaventosa e poltra, sanza guardarsi ai piè, corre a traverso. Già corso avea tre miglia, e seguiva oltra, s'un fosso a quel desir non era avverso; che, sanza aver nel fondo o letto o coltra, riceve l'uno e l'altro in sé riverso. Diè Mandricardo in terra aspra percossa; né però si fiaccò né si roppe ossa.

91
Quivi si ferma il corridore al fine, ma non si può guidar, che non ha freno. Il Tartaro lo tien preso nel crine, e tutto è di furore e d'ira pieno. Pensa, e non sa quel che di far destine.

92
Al Saracin parea discortesia la proferta accettar di Doralice; ma fren gli farà aver per altra via Fortuna a' suoi disii molto fautrice. Quivi Gabrina scelerata invia, che, poi che di Zerbin fu traditrice, fuggia, come la lupa che lontani oda venire i cacciatori e i cani.

93
Ella avea ancora indosso la gonnella, e quei medesimi giovenili ornati che furo alla vezzosa damigella di Pinabel, per lei vestir, levati; ed avea il palafreno anco di quella, dei buon del mondo e degli avantaggiati. La vecchia sopra il Tartaro trovosse, ch'ancor non s'era accorta che vi fosse.

94
L'abito giovenil mosse la figlia di Stordilano, e Mandricardo a riso, vedendolo a colei che rassimiglia a un babuino, a un bertuccione in viso. Disegna il Saracin torle la briglia pel suo destriero, e riuscì l'aviso. Toltogli il morso, il palafren minaccia, gli grida, lo spaventa, e in fuga il caccia.

95
Quel fugge per la selva, e seco porta la quasi morta vecchia di paura per valli e monti e per via dritta e torta, per fossi e per pendici alla ventura. Ma il parlar di costei sì non m'importa, ch'io non debba d'Orlando aver più cura, ch'alla sua sella ciò ch'era di guasto, tutto ben racconciò sanza contrasto.

96
Rimontò sul destriero, e ste' gran pezzo a riguardar che 'l Saracin tornasse. Nol vedendo apparir, volse da sezzo egli esser quel ch'a ritrovarlo andasse; ma, come costumato e bene avezzo, non prima il paladin quindi si trasse, che con dolce parlar grato e cortese buona licenza dagli amanti prese.

97
Zerbin di quel partir molto si dolse; di tenerezza ne piangea Issabella: voleano ir seco, ma il conte non volse lor compagnia, ben ch'era e buona e bella; e con questa ragion se ne disciolse, ch'a guerrier non è infamia sopra quella che, quando cerchi un suo nimico, prenda compagno che l'aiuti e che 'l difenda.

98
Li pregò poi, che quando il Saracino, prima ch'in lui, si riscontrasse in loro, gli dicesser ch'Orlando avria vicino ancor tre giorni per quel tenitoro; ma dopo, che sarebbe il suo camino verso le 'nsegne dei bei gigli d'oro, per esser con l'esercito di Carlo, acciò, volendol, sappia onde chiamarlo.

99
Quelli promiser farlo volentieri, e questa e ogn'altra cosa al suo comando. Feron camin diverso i cavallieri, di qua Zerbino, e di là il conte Orlando. Prima che pigli il conte altri sentieri, all'arbor tolse, e a sé ripose il brando; e dove meglio col pagan pensosse di potersi incontrare, il destrier mosse.

100
Lo strano corso che tenne il cavallo del Saracin pel bosco senza via, fece ch'Orlando andò duo giorni in fallo, né lo trovò, né poté averne spia. Giunse ad un rivo che parea cristallo, ne le cui sponde un bel pratel fioria, di nativo color vago e dipinto, e di molti e belli arbori distinto.

101
Il merigge facea grato l'orezzo al duro armento ed al pastore ignudo; sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo, che la corazza avea, l'elmo e lo scudo. Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo; e v'ebbe travaglioso albergo e crudo, e più che dir si possa empio soggiorno, quell'infelice e sfortunato giorno.

102
Volgendosi ivi intorno, vide scritti molti arbuscelli in su l'ombrosa riva. Tosto che fermi v'ebbe gli occhi e fitti, fu certo esser di man de la sua diva. Questo era un di quei lochi già descritti, ove sovente con Medor veniva da casa del pastore indi vicina la bella donna del Catai regina.

103
Angelica e Medor con cento nodi legati insieme, e in cento lochi vede. Quante lettere son, tanti son chiodi coi quali Amore il cor gli punge e fiede. Va col pensier cercando in mille modi non creder quel ch'al suo dispetto crede: ch'altra Angelica sia, creder si sforza, ch'abbia scritto il suo nome in quella scorza.

104
Poi dice: - Conosco io pur queste note: di tal'io n'ho tante vedute e lette. Finger questo Medoro ella si puote: forse ch'a me questo cognome mette. - Con tali opinion dal ver remote usando fraude a sé medesmo, stette ne la speranza il malcontento Orlando, che si seppe a se stesso ir procacciando.

105
Ma sempre più raccende e più rinuova, quanto spenger più cerca, il rio sospetto: come l'incauto augel che si ritrova in ragna o in visco aver dato di petto, quanto più batte l'ale e più si prova di disbrigar, più vi si lega stretto. Orlando viene ove s'incurva il monte a guisa d'arco in su la chiara fonte.

106
Aveano in su l'entrata il luogo adorno coi piedi storti edere e viti erranti. Quivi soleano al più cocente giorno stare abbracciati i duo felici amanti. V'aveano i nomi lor dentro e d'intorno, più che in altro dei luoghi circostanti, scritti, qual con carbone e qual con gesso, e qual con punte di coltelli impresso.

107
Il mesto conte a piè quivi discese; e vide in su l'entrata de la grotta parole assai, che di sua man distese Medoro avea, che parean scritte allotta. Del gran piacer che ne la grotta prese, questa sentenza in versi avea ridotta. Che fosse culta in suo linguaggio io penso; ed era ne la nostra tale il senso:

108

109
e di pregare ogni signore amante, e cavallieri e damigelle, e ognuna persona, o paesana o viandante, che qui sua volontà meni o Fortuna; ch'all'erbe, all'ombre, all'antro, al rio, alle piante dica: benigno abbiate e sole e luna, e de le ninfe il coro, che proveggia che non conduca a voi pastor mai greggia. -

110
Era scritto in arabico, che 'l conte intendea così ben come latino: fra molte lingue e molte ch'avea pronte, prontissima avea quella il paladino; e gli schivò più volte e danni ed onte, che si trovò tra il popul saracino: ma non si vanti, se già n'ebbe frutto; ch'un danno or n'ha, che può scontargli il tutto.

111
Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto quello infelice, e pur cercando invano che non vi fosse quel che v'era scritto; e sempre lo vedea più chiaro e piano: ed ogni volta in mezzo il petto afflitto stringersi il cor sentia con fredda mano. Rimase al fin con gli occhi e con la mente fissi nel sasso, al sasso indifferente.

112
Fu allora per uscir del sentimento sì tutto in preda del dolor si lassa. Credete a chi n'ha fatto esperimento, che questo è 'l duol che tutti gli altri passa. Caduto gli era sopra il petto il mento, la fronte priva di baldanza e bassa; né poté aver (che 'l duol l'occupò tanto) alle querele voce, o umore al pianto.

113
L'impetuosa doglia entro rimase, che volea tutta uscir con troppa fretta. Così veggiàn restar l'acqua nel vase, che largo il ventre e la bocca abbia stretta; che nel voltar che si fa in su la base, l'umor che vorria uscir, tanto s'affretta, e ne l'angusta via tanto s'intrica, ch'a goccia a goccia fuore esce a fatica.

114
Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come possa esser che non sia la cosa vera: che voglia alcun così infamare il nome de la sua donna e crede e brama e spera,

115
In così poca, in così debol speme sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco; indi al suo Brigliadoro il dosso preme, dando già il sole alla sorella loco. Non molto va, che da le vie supreme dei tetti uscir vede il vapor del fuoco, sente cani abbaiar, muggiare armento: viene alla villa, e piglia alloggiamento.

116
Languido smonta, e lascia Brigliadoro a un discreto garzon che n'abbia cura; altri il disarma, altri gli sproni d'oro gli leva, altri a forbir va l'armatura. Era questa la casa ove Medoro giacque ferito, e v'ebbe alta avventura. Corcarsi Orlando e non cenar domanda, di dolor sazio e non d'altra vivanda.

117
Quanto più cerca ritrovar quiete, tanto ritrova più travaglio e pena; che de l'odiato scritto ogni parete, ogni uscio, ogni finestra vede piena. Chieder ne vuol: poi tien le labra chete; che teme non si far troppo serena, troppo chiara la cosa che di nebbia cerca offuscar, perché men nuocer debbia.

118
Poco gli giova usar fraude a se stesso; che senza domandarne, è chi ne parla. Il pastor che lo vede così oppresso da sua tristizia, e che voria levarla, l'istoria nota a sé, che dicea spesso di quei duo amanti a chi volea ascoltarla, ch'a molti dilettevole fu a udire, gl'incominciò senza rispetto a dire:

119
come esso a prieghi d'Angelica bella portato avea Medoro alla sua villa, ch'era ferito gravemente; e ch'ella curò la piaga, e in pochi dì guarilla: ma che nel cor d'una maggior di quella lei ferì Amor; e di poca scintilla l'accese tanto e sì cocente fuoco, che n'ardea tutta, e non trovava loco:

120
e sanza aver rispetto ch'ella fusse figlia del maggior re ch'abbia il Levante, da troppo amor costretta si condusse a farsi moglie d'un povero fante. All'ultimo l'istoria si ridusse, che 'l pastor fe' portar la gemma inante, ch'alla sua dipartenza, per mercede del buono albergo, Angelica gli diede.

121
Questa conclusion fu la secure che 'l capo a un colpo gli levò dal collo, poi che d'innumerabil battiture si vide il manigoldo Amor satollo. Celar si studia Orlando il duolo; e pure quel gli fa forza, e male asconder pòllo: per lacrime e suspir da bocca e d'occhi convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.

122
Poi ch'allargare il freno al dolor puote (che resta solo e senza altrui rispetto), giù dagli occhi rigando per le gote sparge un fiume di lacrime sul petto: sospira e geme, e va con spesse ruote di qua di là tutto cercando il letto; e più duro ch'un sasso, e più pungente che se fosse d'urtica, se lo sente.

123
In tanto aspro travaglio gli soccorre che nel medesmo letto in che giaceva, l'ingrata donna venutasi a porre col suo drudo più volte esser doveva. Non altrimenti or quella piuma abborre, né con minor prestezza se ne leva, che de l'erba il villan che s'era messo per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.

124
Quel letto, quella casa, quel pastore immantinente in tant'odio gli casca, che senza aspettar luna, o che l'albore che va dinanzi al nuovo giorno nasca, piglia l'arme e il destriero, ed esce fuore per mezzo il bosco alla più oscura frasca; e quando poi gli è aviso d'esser solo, con gridi ed urli apre le porte al duolo.

125
Di pianger mai, mai di gridar non resta; né la notte né 'l dì si dà mai pace. Fugge cittadi e borghi, e alla foresta sul terren duro al discoperto giace. Di sé si meraviglia ch'abbia in testa una fontana d'acqua sì vivace, e come sospirar possa mai tanto; e spesso dice a sé così nel pianto:

126

127
Questi ch'indizio fan del mio tormento, sospir non sono, né i sospir sono tali. Quelli han triegua talora; io mai non sento che 'l petto mio men la sua pena esali. Amor che m'arde il cor, fa questo vento, mentre dibatte intorno al fuoco l'ali. Amor, con che miracolo lo fai, che 'n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?

128
Non son, non sono io quel che paio in viso: quel ch'era Orlando è morto ed è sotterra; la sua donna ingratissima l'ha ucciso: sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra. Io son lo spirto suo da lui diviso, ch'in questo inferno tormentandosi erra, acciò con l'ombra sia, che sola avanza, esempio a chi in Amor pone speranza. -

129
Pel bosco errò tutta la notte il conte; e allo spuntar de la diurna fiamma lo tornò il suo destin sopra la fonte dove Medoro isculse l'epigramma. Veder l'ingiuria sua scritta nel monte l'accese sì, ch'in lui non restò dramma che non fosse odio, rabbia, ira e furore; né più indugiò, che trasse il brando fuore.

130
Tagliò lo scritto e 'l sasso, e sin al cielo a volo alzar fe' le minute schegge. Infelice quell'antro, ed ogni stelo in cui Medoro e Angelica si legge! Così restar quel dì, ch'ombra né gielo a pastor mai non daran più, né a gregge: e quella fonte, già si chiara e pura, da cotanta ira fu poco sicura;

131
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non cessò di gittar ne le bell'onde, fin che da sommo ad imo sì turbolle che non furo mai più chiare né monde. E stanco al fin, e al fin di sudor molle, poi che la lena vinta non risponde allo sdegno, al grave odio, all'ardente ira, cade sul prato, e verso il ciel sospira.

132
Afflitto e stanco al fin cade ne l'erba, e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto. Senza cibo e dormir così si serba, che 'l sole esce tre volte e torna sotto. Di crescer non cessò la pena acerba, che fuor del senno al fin l'ebbe condotto. Il quarto dì, da gran furor commosso, e maglie e piastre si stracciò di dosso.

133
Qui riman l'elmo, e là riman lo scudo, lontan gli arnesi, e più lontan l'usbergo: l'arme sue tutte, in somma vi concludo, avean pel bosco differente albergo. E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo l'ispido ventre e tutto 'l petto e 'l tergo; e cominciò la gran follia, sì orrenda, che de la più non sarà mai ch'intenda.

134
In tanta rabbia, in tanto furor venne, che rimase offuscato in ogni senso. Di tor la spada in man non gli sovenne; che fatte avria mirabil cose, penso. Ma né quella, né scure, né bipenne era bisogno al suo vigore immenso. Quivi fe' ben de le sue prove eccelse, ch'un alto pino al primo crollo svelse:

135
e svelse dopo il primo altri parecchi, come fosser finocchi, ebuli o aneti; e fe' il simil di querce e d'olmi vecchi, di faggi e d'orni e d'illici e d'abeti. Quel ch'un ucellator che s'apparecchi il campo mondo, fa, per por le reti, dei giunchi e de le stoppie e de l'urtiche, facea de cerri e d'altre piante antiche.

136
I pastor che sentito hanno il fracasso, lasciando il gregge sparso alla foresta, chi di qua, chi di là, tutti a gran passo vi vengono a veder che cosa è questa. Ma son giunto a quel segno il qual s'io passo vi potria la mia istoria esser molesta; ed io la vo' più tosto diferire, che v'abbia per lunghezza a fastidire.



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