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Sistema di numerazione

Le scienze dure, e cioè le scienze i cui contenuti sono formalizzabili in un linguaggio matematico, sono le più rigorose dal punto di vista conoscitivo e, integrate con una procedura tecnico-sperimentale di applicazione, le più efficaci dal punto di vista pratico, dal momento che hanno costituito, se così si può dire, il software del moderno sistema industriale. Al tempo stesso però, se si guarda al loro rapporto con quello che Husserl chiamava il "mondo della vita" e cioè con la dimensione del senso, del livello emozionale, quotidiano, più prossimo all’uomo concreto, esse scontano un’astrattezza ed una distanza tali da rendere necessario un processo culturale di sintesi, un processo alla cui base ci sia il principio per cui un sapere che non sia comunicabile anche al non specialista non si può considerare un sapere compiutamente elaborato.

Uno dei primi momenti di questo processo di sintesi dovrà essere l’aggressione della griglia e dei nodi linguistici del linguaggio matematico al fine di sciogliere quest’ultimo in costellazioni concettuali più vicine ai linguaggi comuni storicamente dati. Prima tappa di questo percorso potrebbe essere la riflessione e l’analisi del retroterra culturale, antropologico e chissà forse concettuale di quella che da molti viene considerata un’attività ed una dimensione elementare, di base: la computazione o meglio la conta ed il sistema di notazione numerica (e cioè il modo di rappresentare i numeri). Abbiamo parlato di un retroterra ricco, pieni di rimandi simbolici, di pratiche quotidiane, di vita materiale, di modelli concettuali infine che alla luce degli obiettivi filosofici che ci siamo proposti vale forse la pena di far venire alla luce.

Table of contents
1 I numeri concreti
2 Dalla comparazione alla successione
3 Il sistema posizionale
4 L'introduzione indiana dello zero

I numeri concreti

Non si è contato sempre allo stesso modo, il sistema notazionale o di calcolo che abbiamo è il risultato di una lunga evoluzione caratterizzata da molteplici percorsi e dall’emergere di un sistema che per una serie di ragioni si è diffuso più degli altri. La molteplicità dei percorsi e la natura interessante dei tentativi effettuati fa giustizia però di una visione lineare della storia del sapere e, come vedremo in seguito, anche di una visione che considera solo poche culture foriere di civiltà nell’arco della sia pur lunga e complessa storia del mondo.

Non solo non si è contato sempre allo stesso modo, ma ancor oggi ci sono popoli che non sanno contare nel senso che non concepiscono numeri astratti e sono perplessi di fronte ad operazioni del tipo 2+2=4. I Pigmei in Africa, i Botocudos in Brasile, gli Aranda in Australia computano 1, 2, massimo tre e poi subito parlano in termini di “molti†(“tanti quanto i capelli in testaâ€). I bimbi di queste tribù hanno comunque nell’apprendimento un’evoluzione la cui rapidità è simile a quella dei nostri bambini.

I Boscimani non vanno oltre il cinque. Non c’è ancora astrazione: la percezione della pluralità è ancora indissociata dalla natura degli oggetti presi in considerazione.

Prendiamo ad es. gli Aranda, per loro:

  • 1 è NINTA
  • 2 è TARA
  • 3 è TARA MA NINTA (2 e 1)
  • 4 è TARA MA TARA (2 e 2) che è a sua volta sinonimo di molti.

Si potrebbe allora pensare che sarebbe stato per loro possibile continuare con diverse combinazioni di 1 e 2 così come succede con il nostro sistema binario. Questo forse non era possibile invece. Infatti “2 e 1†e “2 e 2†non sono numeri astratti ma coppie di cose distinte: non ci troviamo di fronte ad una conta vera e propria ma ad una descrizione non sistematica di quantità con l’uso di un lessico specifico che per analogia definiamo “numeraleâ€; la conta vera e propria implica il riconoscimento di una relazione che definiremo costante tra i diversi termini di una successione, relazione che a sua volta permette l’astrazione dai concreti singoli oggetti che vanno computati e l’articolazione della serie in una forma autonoma dall’empiria. In questa svolta cognitiva forse ci sono le lontane radici degli assiomi di Peano. Un ipotetico due-due-uno presuppone dunque un salto concettuale di astrazione che permetta l’iterazione delle cifre. L’ipotesi scartata è interessante anche per un altro motivo però: il chimerico TARA MA TARA MA NINTA presuppone una combinazione di tre elementi; ora è possibile una combinazione simbolico-mentale di tre elementi a chi sa contare distinguendo solo due cifre e cioè NINTA e TARA? La domanda potrebbe anche essere stupida. Ma esiste certamente una differenza tra il mettere 10 mattoni materialmente uno sopra l’altro e combinare simbolicamente nel proprio cervello tre cifre/numeri che insieme formano un numero diverso da quelli che lo compongono.

Questa incapacità di contare oltre i primi numeri e le implicazioni emotive e culturali a ciò legate, possono essere ben esemplificate da una storia che capitò a Galton che in una transazione con un Damera sudafricano si trovò di fronte a questa situazione: doveva ricevere 2 pecore in cambio di 4 stecche; il Damera però non riesce a comprendere questa equivalenza in quanto non riusciva a sintetizzare la nozione di “4â€. Perciò la transazione così costruita lo metteva in subbuglio, in confusione ed andava avanti e indietro da una pecora all’altra e si rasserenò solo quando la somma venne scomposta nelle due operazioni singole che la costituivano. Questo episodio è importante per due ragioni che illustrano l’importanza e la complessità che caratterizzano un’operazione apparentemente elementare ed innocente qual è il contare.

In primo luogo c’è un elemento cognitivo: il Damera diffida della permanenza della medesima quantità al di là delle forme numeriche in cui essa era strutturata. In pratica per il Damera 2p=4s non equivale a 1p+1p=2s+2s o quanto meno egli dubita che sia così, per cui egli va avanti e indietro quasi a verificare la sussistenza effettiva delle due pecore data la nuova modalità di strutturazione dello scambio. Egli ha paura che in questa, che non è un’identità analitica ma una trasformazione rischiosa, qualcosa vada perduto.

Non c’è dunque una identità denotativa tra sensi diversi. A tal proposito forse val la pena fare una parentesi filosofica: forse la filosofia ha una genesi per lo più monistica (si pensi a molti Presocratici ed al c.d. pensiero orientale) proprio in quanto al fine di avere una sorta di paracadute emozionale a tutte le crisi ed i traumi dovuti ad acquisizioni cognitive; va cioè a priori affermata un’unità ontologica al di là della capacità di ricostituirla volta per volta.

L’altra angolazione con cui guardare a quest’episodio è pratico-politica: se il contare oltre il tre e il quattro risulta quasi impossibile e provoca disorientamenti mentali ed emotivi, qualsiasi tipo di transazione non risolvibile mediante gli scarsi strumenti cognitivi a disposizione, porta o alla necessità di una ritualizzazione lunga e minuziosa del rapporto commerciale o redistributivo, oppure ad un cadere nella indeterminazione e nell’angoscia per cui scambio e redistribuzione sono sostituiti dall’uso e della forza e della rapina, che non solo prevengono l’altrui uso della forza e l’altrui rapina, ma registrano l’impossibilità di trovare criteri per gestire la situazione e permettere lo scambio o il trasferimento di beni. Il numero è garante circa il controllo della realtà e circa il nostro rapporto economico con gli altri.

Questa incapacità di contare oltre il tre o il quattro si può rintracciare anche nel lessico indoeuropeo ed in altre culture: Nell’Egitto faraonico 3x corrisponde al plurale di x. 3scarabei=gli scarabei Nel cinese antico 3alberi=foresta 3uomo=folla Per i Sumeri 1 si diceva GESH che voleva dire anche UOMO 2 si diceva MIN che voleva dire anche DONNA 3 era ESH che era sinonimo di MOLTI ed era suffisso del plurale. Anche qui possiamo vedere la rete di rimandi simbolici che una situazione profana poteva generare : se 3 era semplicemente 2 e 1, l’uno maschile unito al due femminile dava origine alla molteplicità della prole. L’articolazione dei primi numeri era simbolicamente isomorfa alla copula ed alla generazione. Tale modello lo ritroveremo nell’Uno e nella Diade Infinita dei Pitagorici e del Platone “esotericoâ€. Nel lessico indoeuropeo 3 e MOLTI sono quasi sinonimi: in francese MOLTI è TRES in latino ed in inglese 3volte e molte volte sono spesso indicati con lo stesso segno AL DI LA è TRES in antico francese TRANS in latino THROUGH in inglese in inglese folla è THRONG in italiano si dice TROPPO e si dice TRUPPA Anche il 4 ha nelle sue radici lessicali questo rimando alla molteplicità in tedesco VIER (4) e VIEL(molto) sono quasi sinonimi il greco TETTARES e il latino QUATTUOR sono etimologicamente collega ti al latino CETERA, le altre cose... Si pensi a 1, 2, 3...et cetera.

Segni di questa divisione tra i primi due tre numeri e la cognizione degli altri (CETERA...) è anche la presenza nelle lingue antiche di numeri in senso grammaticale quali il duale ( greco, ebraico, arabo), mentre in tribù oceaniche c’è addirittura il duale, il triplice, il quadruplice. In tale caso i sostantivi sono anche declinabili, ovviamente assieme al plurale. La mancanza di astrazione nell’approccio numerico alla realtà è esemplificata anche dal fatto che in molte lingue primitive, quali ad es. la lingua tsimshian della Columbia Britannica, ci sono parole differenti per indicare determinate quantità numeriche di oggetti piatti oppure di oggetti allungati o di uomini o di canoe etc. 8 oggetti piatti = yuktalt 8 oggetti allungati = ektlaedskan 8 nel conteggio orale = guandalt Anche nelle nostre lingue c’è traccia di questa differenziazione : In inglese a pair (scarpe) a couple (persone) a brace (polli) a yoke (buoi) In italiano paio pariglia coppia

Altri indizi di questa ipotesi sono ad es. il fatto che in Latino solo i numeri da 1 a 4 hanno genere e declinazione, mentre da 5 in poi no. Inoltre i Romani chiamavano i figli dal primo al quarto con nomi senza rapporto con i numerali ; dal quinto in poi i nomi diventavano Quintus, Sextus, Septimius, Octavius etc. Infine l’anno romano prima della riforma giuliana era di 10 mesi di cui il primo era Martius, poi Aprilis, Maius e Iunius ; dal quinto mese in poi troviamo non a caso Quintilis, Sextilis, September, October etc.

Questa difficoltà per l’uomo di andare oltre i primi numeri viene per lo più ricondotta al fatto che questa soglia corrisponde a quella tra una percezione diretta della pluralità e la computazione estensionale della stessa. La percezione diretta della pluralità è la percezione di coppie, terni di entità identiche o similari ed è istintiva: anche il bambino tra i 6 e i 12 mesi ha una valutazione globale dello spazio, ha una percezione di insiemi di oggetti familiari e si accorge se eventualmente manchi qualcosa. Tra i 12 e i 18 mesi distingue tra 1, 2 e “parecchi†oggetti; tra i 2 e i 3 anni concepisce il 3.

Anche gli animali hanno una percezione diretta della pluralità e riconoscono se da un’insieme sono stati tolti uno o più costituenti. Un cardellino, addestrato a scegliere il proprio cibo da due mucchietti di semi, distingue differenze tra 1,2,3,4 semi ma non tra 4 e 5 semi, 7 e 5 etc. Gli uccelli distinguono quantità concrete da 1 a 4 ma non oltre. Anche noi non sappiamo fare di meglio : all’atto pratico ricorriamo alla comparazione, allo sdoppiamento, al raggruppamento mentale o al computo astratto vero e proprio.

Andare oltre il 4 con l’ausilio di una rappresentazione visuale non simbolica era insomma molto difficile. Vediamo dunque che sembra essere stato possibile un rapporto cognitivo con le realtà numeriche e quantitative senza conteggio al punto da farci considerare i primi numeri come totalità percettive empiriche (GESTALTEN) qualitativamente differenziate e non operazionalmente decostruibili. A partire dal 4 però si rivelava necessaria una tecnica che consentisse in qualche modo il controllo di quantità più numerose. Vedremo in seguito come attraverso la scrittura o quanto meno mediante segni grafici e tacche scritte si risolse almeno temporaneamente questo problema. Nel frattempo c’era bisogno di un metodo che consentisse al contadino analfabeta di controllare se dal suo gregge, al ritorno dal pascolo, mancassero eventualmente una o più pecore. Questa tecnica si rivelò essere il conteggio per corrispondenza o per comparazione : in tale caso i pastori ad es. ad ogni animale che passasse attraverso la soglia in uscita da un recinto facevano corrispondere un sasso o qualche altro oggetto inanimato, piccolo, manipolabile tipo conchiglie, ossa, pezzi di sterco. I sassi ricavati li mettevano da parte al sicuro. Al ritorno del gregge facevano ad una ad una ripassare le pecore stavolta in entrata e ad ognuna associavano di nuovo i sassi messi da parte. In tal modo essi non sapevano né quanti fossero i sassi né quante fossero le pecore ma sapevano, presupponendo costante il numero di sassi, se le pecore variassero di numero.

Dal calculus al calcolo

A tal proposito vale la pena ricordare lo stretto rapporto simbolico tra sasso e numero: il cumulo di pietre, il gaelico cairn è un ideale simbolo di molteplicità. Calcolare deriva dal latino calculus e cioè pietruzza. Sulle tombe si metteva un cumulo di pietre sia per segnalare il luogo di sepoltura ma anche in un certo senso per quantificare i meriti e l’importanza del defunto (si veda la bellissima scena finale del film “Schindler ’s listâ€) L’assimilazione tra sassi e uomini e soprattutto uomini che vengono contati nell’atto di nascere o di morire si può dedurre dal mito di Deucalione e Pirra, dall’assonanza etimologica tra il greco LAOS e il greco LAAS che significano rispettivamente popolo e pietra, infine dall’investitura di Simone/Pietro fatta da Gesù.

Ritornando comunque alla conta per comparazione fatta dal pastore vediamo alcuni presupposti di questa operazione :

  • La possibilità di utilizzare i sassi per indicare le pecore.
  • La costanza nel tempo del numero dei sassi o quantomeno la fedele registrazione di variazioni nel numero di pecore(es. la nascita di un agnello) all’interno della quantità di sassi scelta per denotare le pecore stesse.
  • La chiusura di uno degli ambienti da cui o verso cui le pecore sono fatte passare, alfine di evitare che una delle pecore venga contata più di una volta (pensiamo al salvadanaio).

Analizziamo l’ultimo di questi presupposti: Il conteggio in tal caso diventa possibile nella misura in cui gli oggetti e le entità che devono essere contati abbiano poco spazio per muoversi o addirittura siano immoti e disponibili in maniera pressoché totale nei confronti di chi conta : in pratica oggetti inanimati, prigionieri, animali mansueti, defunti. Per certi versi il contare è un far nascere ma più spesso un far morire o il presupporre la morte dell’oggetto o una sua cattura (pensiamo al rapporto tra conta, cattura, liberazione nell’infantile gioco del “nascondinoâ€) ; ciò in quanto gli oggetti contati non devono tornare indietro ed essere contati di nuovo e generare in tal modo confusione. In tal modo il termine “irreversibilità†richiama l’ordine (quello che per Anassimandro è il ferale ordine del tempo !) anche se la fisica moderna sembra averne un’accezione più collegata con l’aumento del disordine dell’Universo.

Anche qui il contare è un procedimento cognitivo teso al controllo ed al dominio dell’oggetto della conoscenza. Chi conta le pecore è il padrone che controlla se manca qualcuno all’appello (Dio conta anche i capelli che abbiamo in testa e cioè la molteplicità irriducibile e la pretesa di Davide di fare un censimento viene religiosamente censurata in quanto contare gli uomini è prerogativa di Dio, mentre Cristo è il Buon Pastore che conta le sue pecorelle).

La conta per comparazione evita inizialmente l’astrazione : noi non dobbiamo contare per stabilire se un autobus è completo ; basta vedere se tutti i posti sono occupati. Nel conteggio per comparazione il riferimento non è il numero astratto ma la quantità iniziale di pecore (non determinata) che non dovrebbe cambiare. La prima delle condizioni sopra elencate implica un termine di corrispondenza, un insieme più controllabile di oggetti più piccoli che riproduca in scala minore la struttura quantitativa dell’insieme/gregge : in questo caso si tratta dei sassi in cui lo “stare per...†le pecore è uno dei primi esempi di relazione semiotica e simbolica ed al tempo stesso la precondizione per il rapporto di tipo magico che, secondo la mentalità scientifica, è un tipico caso di confusione tra “mappa†e “territorioâ€, secondo i termini utilizzati dal barone Korzybski.

Sarebbe facile dire che il conteggio per comparazione non sia in realtà una conta vera e propria, ma bisogna in primo luogo notare che tale tecnica è stata un momento intermedio fondamentale tra l’intuizione della pluralità e la numerazione astratta ; in secondo luogo anche il conteggio così come noi lo concepiamo è una specie di comparazione tra termini di riferimento interiori o interiorizzati (i numeri idealmente intesi) e serie di oggetti esterni ; in terzo ed ultimo luogo non è forse un caso che la teoria degli insiemi abbia tra i suoi concetti fondamentali quello di corrispondenza biunivoca, che sembra essere una versione raffinata del conteggio per comparazione.

Quest’ultimo si raffina con il passaggio all’uso di tacche su osso o legno, passaggio che risulterà essere una rivoluzione in quanto aprirà la strada alla scrittura vera e propria. L’uso delle tacche ha lasciato anche un residuo linguistico in quanto in inglese il termine tally ha sia il significato di “tacca†che quello di “contaâ€. Esso ha un’origine antichissima e i reperti più antichi circa le attività numeriche dell’uomo sono proprio ossi risalenti all’Età della Pietra con una serie di tacche che a volte incoraggerebbero ipotesi ardite sulle capacità matematiche dei nostri antenati (la tecnica del conteggio per intaglio fa pensare anche all’episodio di Sansone che con una mascella d’asino “uccise 1000 uomini†e forse li segnò numericamente con delle tacche sulla mascella, riproponendo ancora una volta il rapporto simbolico tra “conta†ed “uccisioneâ€).

Con le tacche però il conteggio acquista nuovi problemi in quanto diventa possibile confondersi e dimenticare se si sia per caso sulla tacca giusta durante una “contaâ€. Inoltre il metodo “per comparazione†ha un limite che porta l’uomo ad approfondire la sua conoscenza e a cercare una concezione più astratta del numero : il limite consiste nel fatto che nel caso di differenza tra ad es. le pecore e le tacche, tale differenza, epistemicamente molto feconda, andrebbe anch’essa computata e, se superasse le quantità intuitivamente percepibile andrebbe contata di nuovo con una tecnica analoga e così via. Una prima via d’uscita dall’impasse, almeno per quel che riguarda il rischio di confusione durante la conta è la collana delle preghiere dove volta per volta si ha la certezza di stare sul grano giusto e dove non bisogna sempre controllare la relazione tra il singolo granello e la serie nel suo complesso, dato che quest’ultima è materialmente strutturata in maniera compiuta e conchiusa. Ma la collana delle preghiere ritorna al mondo degli oggetti e non ha aperta dinanzi a sé la strada della scrittura (interessante anche se non ai fini del nostro discorso la buddista “ruota delle preghiereâ€, soprattutto quella portatile, in quanto anticipa il concetto di nastro registrato che mosso in direzione rotatoria anche durante, volendo, una laica conversazione, consente una perfetta sovrapposizione tra attività religiosa e profana). Dunque era necessario un approfondimento del percorso iniziato con il metodo quasi-scritturale delle tacche.

Dalla comparazione alla successione

Corpo umano e prime basi numeriche

Una fase importante dell’evoluzione della modalità di computo fu l’utilizzo del corpo umano. Tale utilizzo fu probabilmente correlato anche alla concezione del corpo inteso come microcosmo e cioè come Universo/Mondo/Dio in scala più piccola. Tale :concezione a sua volta fu estesa all’uomo non più come corpo ma come Mente e/o Anima. Il concetto di microcosmo sarebbe servito per conoscere il mondo e la sua struttura a partire da una sua parte, a volte privilegiata.

Nella conta con il corpo il più delle volte si partiva da una delle mani, si andava verso la testa e si ruotava verso l’altra mano per scendere poi ai piedi e risalire al punto di partenza. Nelle tribù dove si contava (e forse si conta ancora) con il corpo in occasione di transazioni, di rituali, di calcoli legati alle stagioni ed allo scorrere del tempo ed agli astri, si utilizzava più di una persona , per cui il conteggio diventava un’operazione collettiva, sociale, rituale. Il conteggio rimaneva un rischio, ma diventava un rischio condiviso, un rischio che si poteva affrontare organizzati al fine di ottenere vantaggi per la comunità intera.

Ma la cosa più importante collegata al computo “corporaleâ€, fu che esso costituì una tappa importante del processo di incremento delle potenzialità epistemiche e conoscitive del conteggio stesso. Il corpo, infatti, rispetto ad un mucchio di sassi ha differenze rilevanti proprio per la conta : il mucchio di sassi è internamente omogeneo (ogni sasso non ha differenze significative con gli altri) , discontinuo, inarticolato. Il corpo umano invece è continuo, articolato, ogni sua parte è diversa da un’altra e consente dunque due cose:

  • la prima è il passaggio dalla conta per comparazione (con i sassi appunto) alla conta per successione : mentre prima, cioè, la conta era un associare un oggetto con un altro che faceva da riferimento, ora, invece, si è fatto un passo in avanti verso l’astrazione, giacchè è possibile computare una sola serie di oggetti (le parti del corpo) senza fare riferimento ad un’altra serie ; le singole tappe del conteggio sono ben determinate (le dita, il polso, il gomito, le orecchie), il rapporto è solamente quello interno ai membri di una sola serie ed è aperta la strada alla seconda conseguenza considerata e cioè
  • la determinazione più astratta dei numeri: se per andare al gomito si fanno sempre sette passi (5 dita + polso + gomito), il gomito d’ora in poi sarà un riferimento certo per i parlanti senza che si debba riprendere la conta sempre daccapo.

Naturalmente esistono anche altri metodi per agganciare più fortemente la conta al tempo: uno è quello delle canzoni e delle filastrocche (pensiamo a quelle che da piccoli ci servivano per stabilire chi pagava pegno, chi andava “sotto†in un gioco e dunque sostituivano una conta vera e propria) la cui struttura interna permetteva la costituzione di una serie numerica autoreferenziale nel senso che in essa contano solo i rapporti interni tra i membri della serie stessa, membri che si interdefiniscono reciprocamente. Inoltre il contare tramite il corpo si collega anch’esso al rapporto tra conta, controllo, dominio e assassinio. Come si è detto, contare è conoscere, dominare, disporre di un essere umano : contare le dita dei piedi di un altro ne presuppone la morte ( il “tirare i piedi†che è anche un modo per ricomporre un cadavere, è anche un modo per contarlo, per conoscerlo, per cui secondo una superstizione non si giace con i piedi verso la porta in quanto non si espongono i piedi verso chi entra. Il contare più in generale è permesso dal fatto che gli eventi finiscono, terminano temporalmente e sono spazialmente finiti ; li puoi cioè superarli contandoli e lasciandoli alle tue spalle (un po’ come si passano i soldati in rivista).

Infine la conta del corpo fa delle serie dei numeri e dei singoli numeri una struttura determinata e figurale grazie alla quale si apre la strada dell’interpretazione geometrico-figurata che sarà elaborata dai Pitagorici e poi ripresa da tutta la Tradizione esoterica : il rapporto tra i numeri diventa un rapporto gerarchico e si gettano le basi del concetto di ordinale, i cui legami con i numeri cardinali saranno eventualmente meglio descritti nel corso della riflessione filosofica conclusiva di questa ricerca sulla storia della computazione e della notazione numerica.

Un altro importante e successivo passaggio di questa storia è quello dal corpo umano alla mano come strumento di conta. Prima di affrontare quest’argomento vale la pena però di fare una digressione sulla base numerica che ha preceduto l’introduzione della mano come “macchina†per contare ; per base numerica s’intende il primo modulo di computazione con all’interno tutte le cifre semplici di un sistema, tutti i segni fondamentali la cui reiterazione riproduce tutta la serie numerica nella sua illimitatezza. La prima base, come abbiamo già visto, è la base DUE che alcuni collegano alla simmetria, al carattere bilobato di alcuni organismi biologici tra cui il corpo umano stesso (2 orecchie, 2 occhi, 2 braccia, 2 gambe etc.). I popoli che non sanno contare in maniera più astratta sono quelli che si dice contino per base due : tale sistema era forse diffuso in tutto il mondo, mentre attualmente se ne trovano tracce solo nell’emisfero australe ( abbiamo visto i Botocudos, i Damera, e poi i Gumulgal australiani, i Bakairi sudamericani ed i Boscimani).

Questi sistemi si spingono sino ad un certo punto: ad es. gli Indios Zamuco arrivano sino a 9 (2+2+2+2+1). Il sistema fu anche perfezionato: ad es. in un’iscrizione persiana dell’epoca di Dario I (circa VI A.C.), c’è un elenco di simboli numerici da uno a dieci ; paragonando questo elenco con una precedente iscrizione babilonese (1800- 1600 A.C.) ci si rende conto che il sistema persiano è un’introduzione di un sistema in base DIECI in un contesto preesistente a base DUE : guardiamo ad es. il numero TRE; in babilonese esso è III mentre in persiano è I

II 
I I II = I + (I). Come si può vedere, il terzo cuneo è in posizione particolare e rilevante rispetto agli altri due ; mettendo i primi due su piani diversi si crea una base intermedia DUE ausiliare rispetto alla base DIECI, altrimenti il numero TRE sarebbe stato I
I
I

A tal proposito forse il sistema babilonese era un sistema a base TRE orizzontale , dove il salto di livello avviene con il QUATTRO , con il SETTE e con il DIECI e dove il numero che si aggiunge diventa una sorta di tronco/base di un albero e forse non a caso vedremo che simbolicamente l’albero è collegato al numero 4 III \\I/
I        I

Per alcuni il sistema a base DUE era precedente alla conta con le dita della mano ed aggiungono che vi sia stato un unico centro diffusionale di questa tecnica di computo, ma è più facile pensare ad una pluralità di centri in cui si sia costituito una sorta di approccio intuitivo alle quantità legato alle basi materiali del pensiero, approccio che verrà successivamente elaborato in maniera differenziata a seconda della latitudine (si pensi ai miglioramenti del sistema apportati da Zamuto, Boscimani ed altri). Interessante poi a proposito del passaggio dalla conta col corpo a quella con la mano il sistema cosiddetto neo-binario e cioè un sistema intermedio in cui ad es. negli Aborigeni australiani abbiamo 1,2,3 e poi (2+2), (2+3), (3+3) etc. A volte il metodo di aggregazione dei numeri base per costituirne altri è additivo, altre volte è moltiplicativo, altre volte c’è la sottrazione. Ad es. una tribù primitiva del Paraguay conta 1,2,3,4, (2+3), (2x3), 1+(2x3),(2x4), 1+(2x4), 2+(2x4) etc.
                               (2x4)-1           (2x5)-1      (2x5)
  
Poi, come vedremo, quando si introduce la mano, avremo che (2+3) o (2x2+1) diventano 5, mentre 4 diventa (5-1) e da ciò deriverà la notazione numerica romana. Vediamo una sequenza a tal proposito : 1,2,3,4, 5 (MANO), (5+1),(5+2),(5+3),(5+4), (5x2), (5x2+1), (5x2+2), ...., (5x3), (5x3+1), (5x3+2)....., (5x4) .....etc. Comunque il sistema neo-binario o altri sistemi misti affini diventavano scomodi quando, elaborata un’unità collettiva (base o modulo) minima , il computo a sua volta genera un meta-computo delle colonne in cui sono distribuiti le unità ed i moduli formati dalle stesse unità. Tale meta-computo finisce anch’esso per trovarsi contro i limiti di cui il modulo è espressione o, superati questi, contro i limiti naturali della percezione diretta della quantità. Per fare un esempio, partiamo da un sistema a base numerica TRE : III
                            III
                            III
                            III
Come su può vedere, il numero delle file, ognuna di tre unità, è 4 e cioè più del modulo TRE appositamente adottato per evitare confusioni percettive e di lettura (ricordiamo a tal proposito che non ci troviamo in questo caso di fronte ad un sistema posizionale analogo al nostro dove ogni colonna successiva è un ordine numerico differente). Il neo-binario che come abbiamo detto è una forma mista è anche geograficamente contiguo con residui del sistema binario : a Madras ad es. vediamo un residuo di neo-binario dove 1=. 2=.. 3 =... 6= : : : 7= : : : . 8= : : : . . A Bombay invece possiamo trovare un conteggio a base CINQUE con meta-base moltiplicativa CINQUE con possibilità di conteggio sino a 30 ; in tal caso però ci troviamo già di fronte ad un sistema misto. Per parlare di sistema quinario invece dobbiamo fare ovviamente riferimento all’ingresso della mano nel campo del calcolo, ingresso di cui c’è una traccia in diverse lingue quali la lingua ali del Centroafrica dove 5 si dice MORO (mano), mentre 10 si dice MBOUNA che sarebbe l’unione sincopata di MORO+BOUNA (due) e cioè (5x2) ovvero DUE MANI. Nella lingua bugilai della Nuova Guinea invece :
1= tarangesa = mignolo della mano sinistra
2= meta kina = dito successivo
3= guigi meta kina = dito del centro
4= topea = indice
5= manda = pollice

La grande predisposizione della mano ad essere una macchina per contare è consentita da questi fattori:

  • Complessa articolazione che la rende difficile da rappresentare ad uno scultore e che le permette di muoversi in molti modi
  • Disposizione asimmetrica e differenziata delle dita che permettono all’occhio di chi conta di orientarsi meglio e di rappresentare la differenza esistente tra i numeri, di rispecchiare il loro carattere individuo e determinato.
  • Il rapporto privilegiato tra mano e cervello, rapporto tematizzato da vari antropologi e paleontologi
  • L’opponibilità del pollice che consente di staccare un dito dagli altri in modo da non provocare confusioni percettive (a tal proposito un millepiedi sarebbe davvero a mal partito ! certamente avrebbe uno spiccato senso dell’arreton !)
  • L’opponibilità del pollice inoltre consente anche di contare con una base diversa usando il pollice stesse come mouse (puntatore, cursore)
  • Infine la relativa autonomia di ogni dito consente un gran numero di combinazioni ; infatti poiché la dita si possono sollevare sia tutte insieme sia una per volta e ciò consente di rappresentare il numero sia come TOTALITA’ sia come autocostituzione di tale totalità e infine anche come ordinale. Un esempio del primo caso potrebbe essere il 4 come totalità e cioè IIII (si immagini che queste siano quattro dita sollevate) ; un esempio del secondo caso potrebbe essere la costituzione progressiva del 4 e cioè I....II....III....IIII (si immagini che si tratti di un conteggio con le dita della mano) ; un esempio di ordinale potrebbe essere (anche se non è consuetudine comune tra noi ma diffusa in altre popolazioni ) quello del dito anulare o mignolo sollevato ad indicare il 4 inteso come quarto numero (volendo fare a meno dello zero).
       
L’ingresso della mano nella storia della computazione ci autorizzerebbe a parlare della base CINQUE ma ciò sarà argomento del prossimo capitolo.

La mano come strumento di conta e le sue basi numeriche

Come abbiamo visto, con la comparsa della mano come duttile strumento di computazione altre basi numeriche fanno la loro apparizione. Si passa idealmente dalla base 2 alla base 5. Un esempio di base 5 è la lingua Api delle Nuove Ebridi:

1= TAI                6= OTAI = NUOVO UNO
2= LUA	    7= OLUA = NUOVO DUE
3= TOLU	    8= OTOLU = NUOVO TRE
4= VARI	    9= OVARI = NUOVO QUATTRO
5= LUNA           10= LUALUNA ( 2x5   DUE MANI) 
(MANO)            

11= LUALUNA I TAI = 2MANI + 1 12= LUALUNA I LUA = 2MANI + 2

15= TOLULUNA = 3MANI (3x5) 16= TOLULUNA I TAI = 3MANI+1

20= VARILUNA = 4MANI (4x5)

Il fatto che la base 5 in questo caso sia fondata sull’utilizzo computazionale della mano può essere desunto dalla denominazione del numero ‘6’ ( NUOVO UNO) del numero ‘5’ (MANO) e del numero ‘10’ ( DUEMANI).

Quanto alle conseguenze filosofiche delle suddette denominazioni (legate soprattutto alla questione kantiana della matematica come disciplina sintetica a priori) si vedrà più in avanti. La base 5 pure è presente in Africa, Oceania e nel sud dell’India, luoghi dove ancora sopravvivono i relitti di sistemi residuali di notazione numerica.

Questa base (e la mano che è il suo corrispettivo somatico) ha anche delle interessanti connessioni storico-mitiche: La prima si ricollega alla mitologia indù dove il re Pandu impossibilitato ad unirsi alla moglie Kunti viene sostituito da deità che generamo Yudishtira, Arjuna e Bhima (il giudice, il sovrano e la forza indisciplinata) che vengono identificati rispettivamente con il medio, l’indice ed il pollice. Kunti fa unire con le divinità anche un’altra moglie, Madri, che genera altri due figli tra loro gemelli, Nakula il Bello e Sahadeva (anulare e mignolo, il primo dei quali poco si muove senza il secondo, o senza il medio).

Ancora più interessante è il mito egizio in cui Nut (dea del cielo stellato) si unisce a Geb (la terra), ma viene punita da Ra (il Sole) che gli impedisce di procreare nei 360 giorni dell’anno. Allora Thot, innamorato di Nut gioca con Ra e vince cinque giorni, che vengono aggiunti al calendario e nei quali Nut genera Seth, Horus, Osiride, Iside e Nephtis, rispettivamente pollice, indice, medio, anulare e mignolo. Il fatto che Seth fa a pezzi Osiride si può forse collegare al conteggio che il pollice fa sulle giunture delle altre dita, quasi facendole a pezzi.

Tale base consente anche di arrivare a numeri più grandi (nella fattispecie fino al numero 30), contando con una mano le unità e con l’altra le cinquine che risultano con il computo per unità (non è 5x5 ma 5x6 in quanto tenendo aperta a supporto mnemonico la mano delle cinquine si può contare ancora sino a 5 con la mano delle unità). Invece con la base 10 stessa si può contare fino a 10 con le due mani ma poi il riferimento è direttamente mnemonico o diventa un’ulteriore elemento esterno vista la mancanza di un arto ulteriore.

Ben presto la base 5 si è legata ad un’altra base pure legata agli arti ed alle dita e cioè la base 20. In realtà è più corretto dire che le basi 10 e 20 siano tentativi di estendere la base 5, in quanto il calcolo delle dita di una mano si può estendere a tutte e due le mani (base 10) ed alle dita delle mani e dei piedi insieme (base 20).

Un utilizzo misto (base 5 e base 20), dovuto forse all’eredità Maya, è presente negli Aztechi:

1= CE			6= CHICA CE (5+1)
2= OME		7= CHICOME (5+2)  CHICA-OME
3= YEY		8= CHICUYEY (5+3)
4= NAVI		9= CHICNAVI (5+4)
5= CHICA		10= MATLACTLI

20= CEM POUALLI = 1 VENTINA 30= CEM POUALLI ON MATLACTLI = 20x1+10 53= OME POUALLI ON MATLACTLI ON YEY= 20x2+10+3 ( terzo dito del primo piede al secondo conteggio)

Con l’ingresso della base 20 il numero ‘20’ diventava non più « 2mani + 2piedi » ma direttamente ‘uomo’ e dunque una nuova unità di misura antropomorfica : Per i Banda del Centroafrica il termine per ‘20’ è lo stesso per dire “appendere un uomoâ€, così come contare le dita di un uomo è trattarlo come morto, esaurirlo, manipolarlo come un pupazzo. Nei dialetti Maya HUC UINIC = una ventina = un uomo. Per i Maya il mese era di 20 giorni, come un periodo storico era di 20 anni. Per i Malinke della Nuova Guinea ‘20’ è sinonimo di ‘uomo completo ’ mentre ‘40’ è sinonimo di ‘letto’ ( dita delle mani e dei piedi di uomo e donna coricati sullo stesso giaciglio ).

Come la base 10 è un’interazione, un sovrapporsi tra due basi ( base 5 e base 2), così la base 20 è una sovrapposizione tra base 10 e base 2 o meglio ancora una doppia simmetria di 5

5        5
5        5 
(5+5+5+5)
(5x2) + (5x2)
5x2x2

Così era pure per i Maya, un sistema ausiliare di base 5 o 10 che si iterava dalle 4 alle 2 volte.

Dunque tale base congiunta era utilizzata da Maya e Aztechi Tribù africane Malinke, Banda, Yesu Yoruba Tribù sudamericane Tamanas (Venezuela) Eschimesi e Ainu di Sakhalin

Essa andò in crisi quando i piedi furono più sistematicamente coperti da calzature. Di essa rimangono ancora tracce in Spagna, in Gran Bretagna, Irlanda e Francia, forse collegate alla cultura megalitica o almeno a quella celtica.

In inglese troviamo ONE SCORE=1x20 ( SCORE dal sassone sceran = taglio,tacca) Nell’antico francese 80= QUATREVINGTS=4x20

Un ospedale francese del XIII sec. era chiamato Hopital des quinzevingts (15x20=300). In latino il termine viginti non è collegabile né a 2 né a 10, ma sembra essere associabile con termini come victi o vincti ( che sta per “legati mani e piediâ€) I sistemi quinari-decimali e quinari-vigesimali furono comunque sostituiti da quello decimale.

Altra base numerica storicamente importante è la base 12. Essa è stata molto diffusa e tuttora ha sparsi molti relitti in tutto il mondo (es. fra tutti il termine dozzina). Essa era usata da Sumeri e Assiro-babilonesi come misura per le lunghezze, le superfici, i volumi e le capacità. In questo conteso la durata della giornata era suddivisa in 12 periodi detti danna di 2 ore ciascuno; a sua volta il cerchio, l’eclittica e lo zodiaco erano suddivisi da queste popolazioni in 12 beru (settori) di 30° ciascuno. Per i Romani l’asse, unità di misura di peso e moneta, era divisa in 12 once come pure nel periodo della Rivoluzione un soldo tornese era divisibile in 12 denari tornesi. Per quanto riguarda le lunghezze 1piede= 12pollici 1linea= 12punti 1pollice=12linee Per quanto riguarda le misure di peso 12once (once = una volta)= 1 (vecchia)libbra Per quanto riguarda le misure monetarie 12pence= 1scellino ( da shekel/siclo?)

L’origine della base 12 sta forse nel numero delle falangi ( 3 per ogni dito) computabili utilizzando il pollice come cursore (3x4=12). Essa è presente in Indocina, India, Pakistan, Afghanistan, Iran, Iraq, Turchia, Siria ed Egitto (tale diffusione fa pensare ad un utilizzo relativamente recente in ambito islamico) L’interazione tra base 10 e base 12 sembra riecheggiare in alcuni termini ed in alcune locuzioni antiche: ad es. in antico tedesco 11= 1 rimasto (dopo che sono state tolte tutte le dita) e 12= 2 rimaste, da cui forse twelwe=twalif=two left=2 lasciate fuori. Anche nella tradizione ebraica il resto d’Israele sono le due tribù che derivano dal sottrarre le dita della mano (10) alla base 12.

Altra importante base, forse collegata alla base 12, è la base 60. La base 60 presa alla lettera prevedrebbe 60 segni diversi e sarebbe un sovraccarico della memoria. Essa è stata parzialmente utilizzata dalle civiltà mesopotamiche e da astronomi greci ed arabi per misurare archi ed angoli. Attualmente viene usata per le misure angolari (e dunque anche latitudine e longitudine) e per le misure cronometriche. I Sumeri, raffinati commercianti elaborarono un sistema numerico che si basava su 5,10,20. 1,2,3,4,5,5+1,5+2,5+3,5+4,10,20,10x3,20x2,(20x2+10). 60 era una nuova unità che fu denominata geshta per differenziarla da gesh=1.

1= gesh, ash, dish		4= limmu		7= imin (ia+min)
2= min				5= ia			8= ussu
3= esh				6= ash (ia+gesh?)	9= ilimmu (ia+limmu)
10= u (le dita)			20 = nish
30 (3x10) 40 (2x20) 50 (40+10)

Imin e ilimmu sono tracce di un sistema a base 5. Anche ash forse è un residuo di questo tipo. Come si vede dai numeri oltre il 20, le basi utilizzate e gli algoritmi di composizione sono molteplici, ad indicare l’arcaicità del metodo.

600= gesh-u (60x10)
3600= shar
36000= shar-u (3600x10)
216000= shar-gal (3600x60)
2.160.000= shar-gal-u (3600x60x10)
Numerazione con diversi livelli 
1,60,600,3600,216000,2.160.000,12.960.000
1-10-10x6-(10x6x10)-(10x6x10x6)-(10x6x10x6x10)-(10x6x10x6x10x6)-(10x6x10x6x10x6x10)
(10x6x10x6x10x6x10x6) 

Perché la base 60?
  1. Ipotesi di Neugebauer. Nei testi economici cuneiformi importanza primaria ebbe l’unità di peso ( lo shekel che era 1/60 del mana ) come l’assis latino che era 1/12 di oncia e poi divenne 1/12 di ora. A tale ipotesi si può obiettare che un sistema metrologico presuppone un sistema di numerazione e non il contrario.
  2. Ipotesi astronomica. Anno 360 giorni ( 12 mesi lunari x 30 giorni); zodiaco 6 costellazioni; sole in ogni costellazione 60 giorni; possibilità di dividere un cerchio in sei parti uguali di 60° ognuna e con la corda di una di esse (sestante) uguale al raggio del cerchio stesso. A tale ipotesi si può obiettare che la suddivisione del cerchio in 360° avvenuta solo negli ultimi secoli a.C., evidentemente dopo l’introduzione della base 60.
  3. 60 rapporto tra l’ora sumera (2 h ) e il diametro apparente del sole espresso in unità di tempo pari ognuna a 2 mn.
  4. Ipotesi della natura mista della base 60. Questa sarebbe il frutto di una sintesi tra base 10 e base 6 e la prova sarebbe le modalità di costituzione dei numeri sumeri vista sopra (v. il ruolo del numero ‘6’). Ma questa tesi ha l’inconveniente di dover poi spiegare l’origine altrettanto misteriosa di questa base 6.
  5. Ipotesi utilitaristica (Teone di Alessandria IV sec. d.C.).Base 60 ha tanti divisori compresi i primi 6 numeri interi di cui è il minimo comune multiplo oltre ad esserlo di 12 e 10. Tale sistema consente di rappresentare molte frazioni con interi (es. ½ sarebbe 30=60/2) Ma questo spiega meglio il successo della base 60 ma non tanto la sua origine. Anche se è ragionevole pensare al frutto di uno studio approfondito fatto da una classe sacerdotale specializzata come quella mesopotamica, visto che si sovrappose probabilmente ad un sistema decimale spontaneamente usato (e di cui vi è traccia come sistema ausiliare).
  6. Ipotesi di Ifrah. Base 60 sarebbe la sintesi tra la base 5 e la base 12 ( fondata sulla conta delle falangi di quattro dita), la base 12 computata su di una mano e quella 5 computata come multiplo del 12 sull’altra mano. Oppure il contrario (la base 5 computata su una mano e la base 12 come multiplo del 5 sull’altra mano): traccia linguistica di quest’usanza sarebbe in latino il termine “digiti†per indicare le unità ed il termine “articuli†per indicare le decine. Dalla Mesopotamia questa tecnica si sarebbe diffusa ad Oriente (India). Questa è la tesi che per noi è preferibile.

Ma la base che ha poi storicamente trionfato è la base 10, un felice compromesso, né troppo grande (con l’inconveniente di troppi segni elementari) né troppo piccola (con l’inconveniente di complicate combinazioni di pochi segni). Inoltre tale base è ben radicata nella costituzione degli arti dell’essere umano (le 10 dita). Il sistema decimale è simmetrico, ed esteticamente gradevole, con una procedura di costituzione periodica dei numeri a tutti livelli praticamente identica ( in pratica non c’è bisogno di basi ausiliarie come nel caso della base 60).
La vasta diffusione della base 10 è forse legata alla discesa degli Indoeuropei ed all’esistenza di una sola lingua madre nel 2500-3000 a.C., giacché le affinità linguistiche del lessico numerico fanno pensare ad un’elaborazione precedente l’inizio della diffusione. Forse il sistema decimale si è costituito ad un’epoca in cui c’era ancora la comunicazione unicamente orale, per cui i simboli scritti sarebbero addirittura più recenti dei numerali.

In certe regioni dell’Africa Occidentale già si può vedere l’utilizzo di una base 10: ad es. gli animali possono venir contati infilando conchiglie in una striscia bianca fino al numero di 10, con il quale si infila una prima conchiglia in una striscia blu che fa da supporto mnemonico esterno, si svuota la striscia bianca e la si riempie di nuovo fino sempre a 10 etc.; quando la striscia blu arriva poi a 10 conchiglie (10 decine), si svuota e si mette una prima conchiglia in una striscia rossa (centinaia) etc. Anche in Cina troviamo un sistema decimale ben sviluppato:

1= yi				11= shi-yi (10+1)			100= bai
2= er				12= shi-er (10+2)			200= er-bai (2x100)
3= san				13= shi-san (10+3)			300= san-bai (3x100)
4= si
5= wu				20= er-shi (2x10)			1000= qian
6= liù				30= san-shi (3x10)			2000= er-qian (2x1000)
7= qi				40= si-shi (4x10)			10000= wan
8= ba
9= jiu
10= shi

53.781 Cinquantatremilasettecentottantuno 33 lettere in italiano letterale Wu-wan san-qian qi-bai bai-shi yi 24 lettere in cinese Cinquediecimilatremillesettecentoottodieciuno 45 lettere traducendo in italiano letterale

Dal precedente specchietto si vede che comunque il sistema cinese è meno rispettoso delle regole del sistema decimale in quanto ad es. 10000 che da noi è chiaramente dieci-mila, in esso è un termine coniato ex-novo (wan)

Aspetti positivi del sistema a base 10 sono come si è già detto:

  • Il miglior adattamento alla memoria umana (rispetto ad es. alla base 60)
  • Una tavola di moltiplicazione facilmente memorizzabile
  • Migliore rappresentabilità grafica rispetto a basi più piccole (es. in un sistema binario 2452 sarebbe 100110010100)

Tuttavia queste ragioni non sarebbero sufficienti rispetto a basi vicine alla base 10, quali la base 11 e la base 12. La base 12 ad es. preferita dal naturalista francese G. Buffon:
  • Ha più divisori e dunque calcolatori e commercianti sarebbero facilitati perché della base potrebbero utilizzare la metà, un terzo, un quarto ed un sesto.
  • L’anno avrebbe un numero di mesi uguale alla base.
  • Un giorno avrebbe un numero di ore doppio della base.
  • Un'ora ed un minuto avrebbero rispettivamente un numero di minuti e di secondi quintupli della base.
  • La misura in gradi del cerchio sarebbe 30volte la base e così pure l’eclittica.

Molte ragioni per preferire la base 12 sarebbero cioè legate al fatto che molte misurazioni si effettuano ancora con base 12 o base 60 e fondamentalmente sulla presenza di un maggior numero di divisori. Quest’ultimo aspetto ha un inconveniente nella presenza di un maggior numero di ridondanze (doppioni) frazionarie (es. nel sistema decimale 0,68 è lo stesso che 68/100, 34/50 e 17/25). La base 11 invece ha una rappresentazione priva di queste ambiguità in quanto essendo un numero primo è divisibile solo per se stessa, per cui le frazioni sarebbero irriducibili ed avrebbero una sola rappresentazione simbolica possibile.

Per tutte queste ragioni però la base 10 sembra essere il giusto mezzo tra base 12 (troppi divisori) e base 11 (nessun divisore), oltre ad avere l’indubbio vantaggio di essere esemplificabile in maniera immediata dal numero delle dita delle mani con un forte vantaggio nell’apprendimento infantile. Per Boyer la formalizzazione linguistica e poi scritta di una base 10 già esistente e somaticamente ben riconoscibile, è stata decisiva per il trionfo della base 10. Se, cosa abbastanza improbabile, il linguaggio scritto avesse preceduto la costituzione della base si sarebbe potuto pensare ad una molteplicità di basi.

Comunque storicamente la scelta della base 10 si è definita in maniera quasi ufficiale e politica con le decisioni prese dalla Convenzione di Parigi dopo la Rivoluzione francese che disciplinò anche i sistemi di misurazione almeno per ciò che riguarda l’Europa continentale.

Nelle popolazioni più primitive le diverse basi hanno distribuzioni diseguali ma qualche residuo arcaico rimane sempre: ad es. Eels nel 1913 fece una statistica tra centinaia di tribù del Nordamerica dove concluse che il 31% faceva uso di una base 10, il 31% di una base quinaria-decimale, il 27% di una arcaica base 2, il 10% di una base vigesimale e l’1% di una base 3.

Del resto ci sono stati anche dei tentativi di usare basi non legate alla mano tipo la base 4 (anche se più probabilmente tale base è legata all’uso del pollice come cursore che conta le altre dita della mano) di cui vi è traccia nella parola indoeuropea per “8†che sarebbe solo la forma duale di “4â€, ed anche nella relazione che si può instaurare tra il termine “novem†ed il termine “novumâ€, quasi che si fosse di fronte ad una nuova serie numerica su base ottonaria.

Grecia Epoca omerica 1= · ( ½ [cerchietto,archetto, trattino] 10= ¾ o (trattino orizzontale, cerchietto più grande) 100= ד 1000= Ψ (albero) 10.000= C (capanna) (dall’Egizio?) 7699= i sistemi additivi sono costretti ad usare 31 simboli 9(1)+9(10)+6(100)+7(1000) Il problema era la smisurata ripetizione di segni identici. Nel VI sec. a.C. ci fu una sostanziale semplificazione della notazione eLLENICA. Cifre speciali per 5-50-500-5000 base 5 ausiliaria per supportare la base 10 Inoltre fu usato il metodo dell’acrofonia e cioè quello di utilizzare come segno di un numero l’iniziale del nome del numero stesso. In questo modo si andò oltre l’ideogramma.

1= ½ base 10 e multipli 5= Ѓ = Pi = Pente base ausiliare 5 e multipli 10=Δ = Deka 50= ( forca con triangolo appeso all’interno) Pentedeka (pente x deka) 100= Η = Hekaton 500= (forca con h al bordo) = Pentehekaton 1000= Χ = Chilioi 5000= (forca con x all’interno) = Pentechilioi 10.000= M = Murioi 50.000= Pentemurioi

Così 7699= 1(5000) 2(1000) 1(500) 1(100) 1(50) 4(10) 1(5) 4(1) 15 segni e non più 31 Tale evoluzione però alleggeriva la notazione, ma era un regresso per quel che riguardava il calcolo: infatti inserendo cifre speciali supplementari all’unità e ad ogni potenza della sua base, si diminuirono le possibilità operatorie (resti e riporti sottostavano a più regole) e ci si costrinse al ricorso di tavole per contare e abachi (supporto esterno). Così pure con le cifre romane ad es.

 232+				M D C C C   L              I I
 413+				M        C C      X X X      I
1231+ C C C C X I I I 1852 = C C X X X I I
------------------------------------ 3728 M M M D C C X X V III il calcolo in questo contesto non è impossibile, ma molto complicato è il riporto, le sostituzioni e gli spazi vuoti.

I numeri romani in realtà (originati dall’intaglio) non erano segni per fare operazioni ma semplici abbreviazioni per esprimere e ricordare numeri, mentre il calcolo vero e proprio è svolto da uno strumento esteriore. Nelle cifre latine vi è il principio additivo, ma anche il principio sottrattivo, per cui l’operazione è implicita nella cifra stessa (quasi come i numeri negativi). Per Ifrah invece giustamente il sistema è inutilmente complicato, concettualmente arcaico, inadatto per le operazioni. Egli però sostiene che l’uso contemporaneo di principio additivo e sottrattivo sia contraddittorio, ma tale opinione è ingiustificata. In realtà il principio sottrattivo è facilitato dalla presenza della base ausiliaria 5 che rende meno distanti tra loro le scansioni della conta e dunque incoraggia sia le notazioni additive (VI; VII) che quelle sottrattive (IV,IX).

I V X L C D M

Prima

1= ½ 5= V (mano. Albero) 10= X (2mani opposte speculari. Albero rovesciato) 50= W ( V con I al centro. 5x10) 100= Ж ( X con I al centro 10x10) 500= ý (arco orientato a sud-est con angolo piatto alla sua base (fase lunisolare) 1000 = U = (cerchio/angolo giro/ città/ sole) Tutti questi segni con diversi possibili morfismi…

L’intaglio doveva affrontare il problema delle percepibilità diretta dei numeri fino a 4, per cui il 5 abbisognava di un altro simbolo. Il pastore ad es. era in difficoltà percettiva dopo la quarta tacca ed era costretto a ricontare astrattamente. Modificando l’aspetto della tacca ogni potenza di 5 e di 10 con uno sguardo sulla serie di tacche comunque si tiene la situazione sotto controllo. IIIIVIIIIXIIIIVIIIIX…. IIIIVIIIIXIIIIXVIIIIXXIIIIXXVIIIIXXXIIIIXXXVIIIIXXXX……

All’inizio trattino per essere differenziato viene inclinato IIII\\ Oppure si aggiunge un altro trattino a quello già esistente con diversi orientamenti V Λ < > Y у etc. Dopo altri 4 segni, nuovo segno (spesso anche graficamente doppio del 5) Dopo altri 4 segni altro V differente dal primo perché successivo al X Al ripetersi 5volte di V e X ci vuole altro segno per 50 (es. L) In questo modo con uno sguardo il pastore discerne insiemi di 50, 100 segni senza doverli contare ad uno ad uno. tacche particolari usate come leve Da ciò sistema decimale con 5 come base ausiliaria (come sistema latino). Si può pensare anche a basi alternate 2 e 5.

Esempio: 1 5 10 2x5 50 2x5x5 100 2x5x5x2 500 2x5x5x2x5 1000 2x5x5x2x5x2 5000 2x5x5x2x5x2x5 Nella tecnica primitiva di computo per intaglio 39 manzi era così descritto: IIIIVIIIIXIIIIVIIIIXIIIIVIIIIXIIIIVIIII

     5      10    15    20    25    30    35    39 

Tale notazione cardinale era molto scomoda anche se non ci costringe a memorizzare, in quanto ci espone fortemente alla confusione percettiva. Dunque si passò alla notazione ordinale in cui si passa da I II III IIII a IIII Dove il numero è in sé una totalità che riassume in sé i momenti che l’ hanno costituita, ha in sé la memoria della sua autocostituzione.

Il fatto che la numerazione greco-latina sia derivata dalle tecniche della numerazione per intaglio è indirettamente provato dal fatto che popoli più primitivi dei Romani (Dalmati, Tirolesi, Germano-Scandinavi) sono pervenuti autonomamente ai principi della numerazione latina (es. principio sottrattivo era presente pure presso gli Etruschi) Indiani Zuni: 1= I (tacca) 5= V 10= X Gli stessi segni!!!

Comunque forse il principio sottrattivo ha facilitato l’invenzione dell’algebra ed anche quello della cronometria ( le cinque meno un quarto…)

In latino computo/conto è ratio. Ratio come logos vuol dire rapporto, comparazione come ad es. tra pecore e sassi. Pensare è rationem putare. Putare è fare una tacca, tagliare. Rationem putare è istituire un rapporto con una cosa facendo una tacca sul legno (analogia già ben nota tra la mente ed una lama).

Le notazioni numeriche romano-medievali invece erano complicate e compromettevano l’effetto originario (economia di simboli) del principio additivo. Il sistema latino, ricorrendo a più principi, più basi, a più convenzioni perse di coesione e finì per precludersi molte possibilità operatorie, risultando essere alla fine una regressione.

Il sistema posizionale

L'inizio del sistema posizionale

La scrittura ieratica egizia

La scrittura geroglifica egizia attribuiva cifre specifiche ad 1, a 10 ed alle potenze di 10, e poi le ripeteva tante volte quanto era necessario. 1-10-100-1000-10.000-100.000-1.000.000 etc.

Gli egizi dunque avevano come punto di riferimento gli ordini numerici: Simbolizzando gli ordini in diversi modi (girino, spirale etc.) essi non avevano bisogno dello zero ma dovevano ripetere i simboli dei vari ordini fino a 9 volte ciascuno. Ad es. 9.999.999 (7 segni nella nostra notazione) esigeva fino a 63 grafismi Nella moderna notazione numerica il riferimento invece sono le cifre da 0 a 9 e le posizioni.

Dunque il fare a meno dello “0†costringe ad utilizzare simboli diversi per le diverse potenze (ordini) o quanto meno a porsi il problema dello spazio vuoto, cioè di come denotare la vuotezza di un certo ordine, di un certo livello numerico (come ad es. nel numero 101). Sull’abaco era possibile uno spazio vuoto; nella scrittura invece è tutto più ambiguo (quanto deve essere largo uno spazio vuoto? Quanto è riproducibile in una sequenza senza fare confusione? Gli Antichi avevano forse i nostri quaderni a quadretti o le barre spaziatrici di una tastiera?).

Per risparmiare tempo gli Egizi elaborarono la scrittura ieratica e cioè un sistema, comunque additivo, di segni stilizzati al massimo con piccoli tocchi rapidi o una sola pennellata. La stilizzazione comporta il fatto che i segni siano avulsi da ogni intuizione visiva diretta ed eseguibili senza staccare il pennello: i particolari figurati sono meno numerosi i contorni sono ridotti all’essenziale la somiglianza con i prototipi sempre più vaga la possibilità di morfismi sempre più alta In questo modo si perde il rapporto con la rappresentazione Tale notazione ieratica (con la numerazione decimale e le cifre per i numeri da 1 a 9 e per le potenze di 10) era già utilizzata nel papiro di Ahmes; inizialmente essa era la stilizzazione degli ordini numerici geroglifici più l’accorpamento sempre stilizzato delle molteplicità interne ad ogni ordine numerico. Alla fine nel suo pieno sviluppo tale notazione contava 9 segni per unità semplici 9 segni per le decine 9 segni per le centinaia 9 segni per le migliaia 36 segni (difficili da ricordare) invece dei 7-8 geroglifici invece dei 10 segni nostri Ma che consentivano di scrivere (in ordine inverso) 3577 con 4 cifre ( 7-70-500-3000) invece che in 22 come nel geroglifico ( 7x1-7x10-5x100-3x1000).

Notazioni numeriche alfabetiche

Anche gli scribi israelitici ed i matematici greci si dotarono di notazioni numeriche equivalenti allo ieratico egizio, ma utilizzarono le lettere (in ordine consecutivo) dei rispettivi alfabeti.

L’alfabeto fu l’ultimo perfezionamento della scrittura adattabile ad ogni inflessione di ogni lingua articolata e dava la possibilità di scrivere tutte le parole con un piccolo numero di segni fonetici (lettere). Esso fu opera dei Fenici, commercianti spinti da un bisogno comprensibile di concisione. Il commercio diede diffusione al loro sistema: sulle coste mediterranee (Greco, Latino, Etrusco) a sud ( Moabiti, Ebrei, Nabatei ) a est ( Aramei, Siria, Persia, India)

Ci fu dunque un tentativo di sovrapporre ordine alfabetico ed ordine numerico. Ebrei usarono numerazione alfabetica Per le date del calendario Per i paragrafi dell’Antico Testamento Per le pagine delle opere scritte

Numero Ebraico Greco
1 Aleph (‘) Alpha (a)
2 Beth (b) Beta (b)
3 Gimel (g) Gamma (g)
4 Daleth (d) Delta (d)
5 He (h’) Epsilon (e)
6 Waw (w) Faw-Digamma (f)
7 Zain (z) Zeta (dz)
8 Heth (h) Eta (e)
9 Teth (t) Theta (th)
10 Yod (y) Iota (i)
20 Kaf (k,kh) Kappa (k)
30 Lamed (l) Lambda (l)
40 Mem (m) Mi (m)
50 Nun (n) Ni (n)
60 Xi (ks)
70 Ayin (‘) Omicron (o)
80 Pe (p,f) Pi (p)
90 Sade (s) San (s)
100 Qof (q) Qoppa (q)
200 Res (r) Ro (r)
300 Sin (s) Sigma (s)
400 Tav (t) Tau (t)
Ypsilon (y)
Phi (ph)
Psi (ps)
Chi (ch’i)
Omega (o)

Ebraico

352= beth+nun+sin (2+50+300) C’era un tabù sui numeri 15 e 16 Infatti essi non erano raffigurati tramite yod+he (10+5) e yod+waw (10+6) Questo perché yod+he+waw+he (JHWH) era il nome di Dio, che era pregno di energia e quindi tabù. Per 15 e 16 si utilizzavano Waw+teth (6+9) e zain+teth (7+9) Questo fu uno dei primi esempi di operazione casuale non costituita sulle basi numeriche solite. Per distinguere i numeri dalle lettere, si metteva sulla lettera che significava il numero un piccolo puntino o un apostrofo, oppure una linea su gruppi di lettere o un doppio apostrofo a sinistra della lettera (virgolette?) Inoltre per i numeri da 400 in poi si combinava Tav (400) con centinaia già note. Oppure Si utilizzava, come faceva la Kabbalah, Kaf (20) Mem (40) Nun (50) Pe (80) Sade (90) con al termine un particolare modificato. Per le migliaia si mettevano su ogni lettera due punti (x1000) fino a 999.999.

I Greci invece nel IV-V sec. a.C. presero le 24 lettere dell’alfabeto a cui aggiunsero Digamma, San e Koppa (origine fenicia) e dunque costituirono 27 segni (3x9) 9 per le unità 9 per le decine 9 per le centinaia Questo sistema sostituì progressivamente quello acrofonico erodiano di cui abbiamo già parlato precedentemente. Es. 645= ΧΜΕ (600+40+5) Il principio è sempre additivo e non posizionale. Infatti mentre in 645 il simbolo 6 sarebbe lo stesso anche se cambiasse di posto con il 4 (465) Nella notazione greca da Χ si trasformerebbe in Ξ (ΤΞΕ) perché non sarebbe più 600 ma 60, differenza che nel sistema posizionale non ha conseguenze grafiche. Per distinguere le lettere dalle cifre, queste ultime sono rappresentate con un tratto orizzontale soprastante.

Da 1000 a 9000 sono usate le lettere significanti da 1 a 9 aggiungendo un apostrofo a sinistra (Boyer interpreta generosamente questo metodo come un inizio di posizionalità) Questa consuetudine fu anch’essa mutuata probabilmente dallo ieratico egizio. E’ bene ricordare che l’influenza della matematica egizia su quella greca riguardò oltre la notazione numerica anche l’elaborazione di progressioni geometriche con frazioni unitarie sempre più piccole che forse ispirarono i famosi paradossi di Zenone.

Ebrei hanno influenzato Greci o viceversa? Sarà il caso di precisare prima che l’antenato comune è sicuramente la scrittura ieratica egizia. 311-310 a.C. papiro greco di Elefantina. 286-246 a.C. monete di Tolomeo II Filadelfo 78 a.C. monete della dinastia asmonea in Israele. Nel contempo alcuni hanno notato che numerosi brani dell’Antico Testamento indicano che i loro estensori erano versati nell’arte di cifrare le parole per mezzo dei valori numerici delle lettere ebraiche. A questo punto o l’utilizzo dei numeri con le lettere più antico risale all’ VIII-VI secolo a.C. o i testi biblici sono meno antichi di quanto si pensasse. Comunque è indubitabile la comune ascendenza egizia.

La numerazione alfabetica greco-ebraica ebbe nel Mediterraneo orientale il ruolo che la numerazione latina ebbe nel Mediterraneo Occidentale. Tale numerazione ha comportato un valore numerico per ogni parola o gruppo di parole. Poi ha incoraggiato quella pratica poetica, mistica e religiosa che viene chiamata isopsefìa presso gli Gnostici greci e ghematrìa presso i Cabalisti ebraici. Anche se il collegamento tra scrittura e notazione numerica è molto più antico:

  • Presso i Sumeri molti dei erano collegati ad un numero (Anu al 60, Enlil al 50, Ea al 40, Sin al 30, Samas al 20, Ishtar al 15)
  • Sargon il re assiro riteneva che 16.283 fosse il numero del suo nome (epigrafe del VII sec. a.C. a Khorsabad)
  • Il compilatore di una tavoletta babilonese si firmava 21-35-35-26-44.

Nel I sec. d.C. il poeta Leonida di Alessandria versifica distici ed epigrammi isopsefi (nel distico la somma dei valori del primo verso doveva essere uguale alla somma dei valori del secondo verso). Tale parallelismo lettera/numero si ripercuote anche nelle somiglianze in diverse lingue tra termini quali “conta, contare†e termini come “racconto, raccontareâ€

Italiano Contare Raccontare Tedesco Zahlen Erzahlen Francese Conter Conter Ebraico Saphor Saper Cinese Shu Xushu

Presso gli Arabi invece erano diffusi i cronogrammi per fare commemorazioni. Es. Anno del distacco di Ahmed ibn Ali ibn Abdallah, eroe del Nord-Ovest marocchino dal potere alawita = 1335. 1335 diventa 94+331+90+761+59 e cioè “Maometto salva il mondo dalla miscredenzaâ€.

Si sviluppa in tal modo la numerologia, metodo di interpretazione /previsione/speculazione magica. Esempi:

  • In greco Svetonio evidenzia l’equivalenza tra il nome Nerone e la frase “egli uccise la propria madreâ€
  • 300 (Tau = Croce) + 18 (ΙΗ = prime lettere di Iesus) + 31 (anni di Cristo) + 16 (anno del regno di Tiberio coincidente con la Crocifissione) = 365 = Fine del mondo.
  • 17 in cifre romane (XVII) anagrammato diventa VIXI (ho vissuto, vissi) e cioè “sono mortoâ€
  • 666 = Lateinos – Diocles Augustus – Qsar Neron – Luther(nuc) – Vicarius Filii Dei
  • Un principe medievale con il nome che assommava a 284 cercava sposa il cui nome assommasse a 220 in quanto 284 e 220 sono numeri amichevoli cioè numeri i cui divisori sommati riproducono l’altro numero (divisori di 220 sommati 1+2+4+5+10+11+20+44+55+110= 284 mentre divisori di 284 sommati 1+2+4+ 71+142= 220)
Gli alfabeti cifrati furono anche conseguenza di questa pratica.

La numerazione alfabetica risolse in parte il problema delle cifre. Ad es. 768 si poteva scrivere in 3 cifre piuttosto che in 21

rimanendo fermi però ad un principio additivo che limitava le possibilità della numerazione scritta.

Numerazione cinese

I Cinesi invece utilizzavano 13 segni, usati a partire dal III sec. a.C. 1-2-3-4-5-6-7-8-9-10-100-1000-10000

1= - (yi) 9= מ (jiu) 100= Â(bai) 2= = (er) 10= † (shi) 1000= ‡ (qian) 3= @ (san) 20= Ãœ (vecchio simbolo) 10.000 = " (wan) 4= ÃŒ (sì) 5=ï¬ (wu) 6=Â¥ (liù) 7= Å (qi) 8= Л (ba) I segni cinesi per i numeri non sono cifre, ma caratteri in lingua cinese Segni/parole che esprimono sia un valore ideografico sia un valore fonetico dei nomi cinesi dei numeri corrispondenti Essi sono rappresentazioni grafiche dei seguenti monosillabi cinesi yi er san sì wu liù qi ba jiu shi bai qian wan Segni numerici rappresentazione semplicissima a tutte lettere dei numeri corrispondenti Es. italiano: uno,due,tre,quattro,cinque etc.

In cinese poi le cifre sono rappresentate in diversi modi

  • Grafia classica (o scrittura cinese moderna), il kaishu (scrittura semplice codificata nel IV sec.d.C.), inserita nelle opere letterarie, scientifiche ed a stampa.
  • Grafia più complicata, il guanzi (cifre ufficiali), che si usa nei contratti e negli assegni.
  • Forma corsiva e concisa xing-shu (o caoshu) che si usa nei manoscritti.
  • Ci sono poi i cosiddetti “numeri-bacchetta†o “numeri-asta†per il lavoro matematico-scientifico, usati dal II secolo a.C. Venivano usate bacchette rosse e nere che rappresentavano numeri positivi e negativi (e per questo motivo la matematica cinese è stata una delle prime ad elaborare motivi algebrici e forse ad influenzare in questo l’India). Da questi numeri-bacchetta è probabilmente derivata infine la scrittura segreta crittografica (ganmazì nganmà)

Nel sistema numerico cinese nel rappresentare i numeri da 11 a 19 si usava 10 ed a destra si mettevano i numeri che al 10 si dovevano addizionare (metodo additivo) Esempio † †= 14 = (†) + ( †)

Invece da 20 si sperimenta un metodo moltiplicativo (già usato in Mesopotamia ed Egitto) per cui 20 è 2x10: il moltiplicatore della base di riferimento si mette a sinistra (e non a destra come nelle procedure additive). Es. 20 diventa ( = †) che corrisponde a [(=) x (†)] e cioè 2x10. 21 invece diventa (= † −) che corrisponde a [(=) x (†) + (−)] e cioè 2x10+1

79.564 = qi wan  jiu qian  wu bai liù shi sì = (7x10.000)+(9x1000)+(5x100)+(6x10)+4
In questo modo
Si evitavano le fastidiose ripetizioni di segni identici 
E l’uso di troppi simboli originari.

Il principio moltiplicativo consentiva di arrivare sino a 999.999.999.999. 10.000= yi wan = 1x10.000 100.000 = shì wan = 10x10.000 1.000.000= yi bai wan = 1x100x10.000 10.000.000= yi qian wan = 1x1000x10.000 100.000.000= yi wan wan = 1x10.000x10.000

487.390.629 sì wan wan ba qian wan qi bai wan san shì wan jiu wan liù bai er shì jiu (4x10.000x10.000)+(8x1000x10.000)+(7x100x10.000)+(3x10x10.000)+(9x10.000)+(6x100)+(2x10)+9 (19 segni) Ma c’erano altri modi più economici ma più ambigui per esprimere ad es. lo stesso numero yi wan sì wan ba qian qi bai san shì jiu liù bai er shì jiu 10000 x [(4x10.000)+(8x1000)+(7x1009+(3x10)+9] + (6x100)+(3x10)+9 (16 segni)

In pratica si può pensare che l’inizio di formule polinomiali sia collegabile all’esigenza di rappresentare i grandi numeri stessi. Questo però rendeva il sistema di notazione più macchinoso e incoraggiava la scoperta di soluzioni più semplici. Inoltre il calcolo era comunque demandato all’abaco e perciò appannaggio di pochi specialisti.

Il sistema posizionale

Le ragioni della superiorità del sistema numerico che si è diffuso dall’India sono il principio posizionale (che di per sé denota i diversi ordini numerici) e lo zero (che colmava i vuoti in un sistema posizionale). Un sistema posizionale è un naturale e sistematico sviluppo del sistema moltiplicativo in cui viene usata una base fissa, spariscono come superflui determinativi e moltiplicatori e dove il coefficiente è rappresentato dalla posizione della cifra nell’intera rappresentazione numerica. Le altre notazioni dovevano dare ad ogni cifra un valore fisso a prescindere dalle posizioni. Nella numerazione cinese i segni per 7829 sono 7 mentre col sistema da ni utilizzato sono 4. Nel nostro sistema sono soppressi gli indicatori delle potenze di 10 e le cifre delle unità prendono diverso valore a seconda delle posizioni (mix ideale tra il numero di cifre e la necessità di iterazione delle stesse). In questo modo il linguaggio scritto comunica una fitta rete di concetti mediante semplice permutazione di pochi simboli. Se si usano invece i numeri romani non c’è una notazione che abbia efficacia algoritmica (non è possibile cioè fare operazioni se non ricorrendo ad un supporto esterno, tipo l’abaco). Il sistema posizionale invece consente una comoda esecuzione di operazioni aritmetiche: si mettono i numeri da sommare uno sotto l’altro li si può addizionare colonna per colonna riportando i totali eccedenti il 10 nella colonna a fianco (ordine superiore).

Questo sistema è anche una sorta di metafora ontologica e sociale di una gerarchia funzionale (e non rigida e letterale come quella egizia con i diversi ordini numerici irriducibili gli uni agli altri) di livelli ontologici che funzionano come vasi comunicanti ed in cui c’è il passaggio dalla quantità alla qualità ed in cui c’è il novum.

Sistema posizionale e zero mesopotamico

Le civiltà mesopotamiche furono le prime ad intuire sia il principio posizionale sia lo zero (inizio II millennio a.C.). Essi avevano però un sistema sessagesimale misto con il 10 ausiliare (introdotto probabilmente nel Primo Impero Babilonese), dove la base ausiliare vedeva una numerazione additiva e dove la numerazione posizionale partiva solo da 60 in poi, per lasciare il posto alla numerazione additiva tra una potenza e l’altra di 60. Dunque solo con la sessantina si andava all’ordine superiore all’unità mentre il terzo ordine si raggiungeva addirittura con 60x60. C’era dunque una distanza eccessiva tra i diversi ordini numerici e c’erano due sole cifre:
  • il chiodo verticale (unità) ˆ
  • un punzone (decina) |
Ripetuti n volte per ottenere il numero desiderato
19 = |  ˆˆˆ          58 = ||   ˆˆˆ 5x10+8x1
        ˆˆˆ               ||   ˆˆˆ	
        ˆˆˆ               |    ˆˆ		

69 non era ||| ˆˆˆ ma ˆ ˆˆˆ (1x60)+(9x10) ||| ˆˆˆ ˆˆˆ ˆˆˆ ˆˆˆ

A questo proposito è significativo dell’uso del principio posizionale il mito della pietra nera di Asarhaddon (680-669 a.C.) dove Marduk pietoso inverte le cifre del numero degli anni in cui Babilonia sarebbe dovuta essere abbandonata dopo la distruzione di Sanherib (Sennacherib), gli anni da 70 (ˆ|) diventano 11 (|ˆ). Questo aneddoto è poi legato alle implicazioni quasi magiche del sistema posizionale.
1 valeva al primo posto 1
Al secondo 60
Al terzo 60x60  etc.
72 = ˆ|ˆˆ                  (1x60)+(1x10)+(2x1)

1000 = |ˆˆˆ|| (10x60)+(6x60)+(4x10) ˆˆˆ||

174.012 = ||ˆˆˆ|| |ˆˆ (4x10x60x60)+(8x60x60)+(2x10x60)+(1x10)+(2x1)= 174.012 ||ˆˆˆ 144.000+28.800+1200+12 ˆˆ

Nel calcolo sessagesimale è come fare il computo del tempo 174.012 è come 48h 20’ 8â€.

Gli inconvenienti di questo sistema sono:

  • Le 59 unità significative fatte con molte ripetizioni additive di due cifre base (anche se i Babilonesi facevano uso di un simbolo di sottrazione- LAL=TOLGO- per evitare una eccessiva molteplicità di segni).
  • Il principio posizionale misto e dunque incompleto, in quanto all’interno di ogni ordine numerico vale ancora il principio additivo e il numero delle cifre utilizzate è troppo basso.
  • Rischi di confusione. Esempi:

Tra 2 (ˆˆ) e 61(ˆˆ)
Tra 23 (||ˆˆˆ)      613 (||ˆˆˆ)        36.603 (||ˆˆˆ)
    2x10+3          1x10x60+1x10+3     1x10x3600+1x10x60+3

C’era insomma la difficoltà di sapere come vanno distinti gli ordini nei quali vanno raggruppati i segni. Infatti il sistema misto additivo-posizionale presenta anche il problema di distinguere, in presenza di più segni, se ci troviamo di fronte a più ordini o a più unità interne ad un ordine. ˆˆˆ ad es. sarebbe 3, 121, 62, 3661 o altro?

Dunque il sistema rischiava di essere ambiguo e di generare errori. All’inizio i segni degli ordini superiori venivano rappresentati di dimensioni più grandi. Spesso però la fretta della scrittura abituale non consentiva di rispettare tali differenze nelle dimensioni. La soluzione successiva pure dava l’impressione di un rattoppo: era cioè uno spazio vuoto tra un ordine e l’altro (alla maniera dell’abaco e del quipu). Esempi: 132 = ˆˆ|ˆˆ (60x2)+(1x10)+(2x1)

3672 = ˆ ˆ|ˆˆ (1x60x60)+(1x60)+(1x10)+(2x1)

Come si vede il problema del sistema posizionale è la mancanza dello zero. Infatti se si usa il principio di posizione c’è bisogno di un segno grafico speciale per rappresentare un ordine numerico vuoto.

Ad es. con 10 come si fa a sapere che l’1 riempie il secondo ordine numerico se non c’è un simbolo che denoti il primo ordine numerico sia pure vuoto? Questa mancanza, questo vuoto doveva per forza essere rappresentato da qualcosa, in questo caso lo zero.

Inizialmente i Babilonesi ignoravano tale concetto, come abbiamo visto. Ma la tecnica di utilizzare un semplice spazio vuoto non consentiva una scrittura fluida e rapida, giacché sanzionava eventuali distrazioni nella scansione degli spazi con l’ambiguità semantica. E poi come si simboleggia l’assenza di due o più cifre in altrettanti ordini numerici? Si evidenziano due spazi vuoti? E come si fa? Si richiederebbe troppo alle facoltà percettive. Nel VII secolo cominciò probabilmente ad essere utilizzato un segno di interpunzione tra ordini numerici: il segno utilizzato era una virgola che sanciva in altri documenti scritti il passaggio da una lingua all’altra.

Nel III sec. a.C. allora compare il più antico zero della storia, quello babilonese appunto. Due segni (cunei) obliqui appaiati o parzialmente sovrapposti. Tale cifra però non fu concepita come una quantità, un numero nullo su cui operare. Es. 20-20 (20 meno 20) non ha in questo sistema un risultato. Ed in una distribuzione di granaglie invece di dire “il risultato è zeroâ€, a Babilonia si dice “Il grano è finitoâ€.

Lo zero babilonese veniva messo negli spazi vuoti tra i simboli. Esso dunque sta per spazio (oppure ordine) vuoto, ma non c’è coincidenza tra spazio vuoto e un nulla (uno zero), tra lo zero babilonese e “10 meno 10â€. Lo zero non veniva generalmente messo alla fine del numero (come da noi con 10, 100, 1000 etc.) anche se questo fu spesso incoraggiato (alla fine, ma anche all’inizio della cifra) dagli astronomi che lo utilizzavano per rappresentare frazioni tipo 34/10 o numeri come 0,5 (questa consuetudine fu ripresa pari pari dall’Ellenismo).

Nella grande maggioranza dei casi dunque non si sapeva se un simbolo, preso da solo, rappresentasse il proprio valore facciale immediato (es. ˆ= 1) o se fosse il prodotto del valore facciale per una potenza di 60 (es. ˆ= 60x60= 3600). C’è da dire che zero sarebbe stato difficile da trattare e da utilizzare ad es. come operatore nella formazione delle frazioni (non c’è divisione per zero).

Lo zero ellenistico

Molti storici della matematica suppongono che lo zero nella sua forma attuale sia stato portato in India dalla cultura ellenistica (e spesso Ellenismo per questi storici significa “ideologicamente†Grecia), giacché questo segno lo ritroviamo già nei papiri ellenistici del III sec a.C. e poi in Claudio Tolomeo nel 150 d.C.

Addirittura alcuni studiosi (come L. Russo) ipotizzano che quella “greca†sia stata una sorta di anticipazione interrotta ben più consapevole della presunta “scoperta†indiana. In questa sede non entreremo in questa polemica storiografica che rinviamo a dopo, quando tratteremo del ruolo dell’India in questa articolata storia delle cifre. Quello che è importante discutere in questa sede è l’origine del segno attuale che sta per lo zero, è cioè il tondino vuoto.

Per alcuni l’origine è acronimica, nel senso che 0 starebbe per la “o†(ο) di oudén (gr, “nienteâ€) tanto è vero che in epoca bizantina, quando “niente†era reso più spesso con ''medén' il simbolo utilizzato era la “Mi†greca (μ).

A questa tesi Neugebauer obietta che se fosse stato così ci sarebbe stata confusione tra “o†intesa come zero e “o†intesa come 70 nel sistema alfabetico-numerico greco. A questa obiezione di Neugebauer si è controbiettato che anche in altri casi il rischio di confusione è stato ugualmente corso: sia Diofanto per designare un segno che indicasse una separazione tra le decine di migliaia ed i numeri più piccoli (monas), sia astronomi contemporanei di Archimede, per designare i gradi (moira) hanno utilizzato lo stesso segno e cioè la Mi con l’omicron sovrapposto che può indicare anche il numero 700.000. Un’altra ipotesi sull’origine del segno è quella che esso rappresenterebbe la forma grafica della traccia lasciata sulla sabbia da un ciottolo (psephos) appena tolto.

A questa polemica si possono fare alcune osservazioni:

  • La distinzione tra moira, monas e il numero 700.000 è più facile di quella tra zero e 70.
  • In un sistema dove la posizione della cifra non conta nulla, il simbolo conta moltissimo, ed è quindi essenziale che non si confonda con altri.
  • La distinzione tra zero e 70 non conta nulla se lo zero viene utilizzato solo nella numerazione sessagesimale (in quanto 70 in tal caso è graficamente 60+10) e/o se zero costituisca solo un segno di interpunzione o indicante l’assenza del numero, ma non un numero determinato (ipotesi corroborata dalla natura fortemente decorativa delle sue rappresentazioni grafiche, dall’utilizzo della tecnica “archeologica†e “crittografica†dell’acronimico e proprio dall’utilizzo quasi esclusivamente astronomico e “sessagesimale†di questo segno)

È possibile formulare un’altra ipotesi sull’origine del segno:
  1. Inizialmente fu coniato in ambito neo-babilonese un segno per distinguere i diversi ordini numerici, segno che poi servì per indicare l’assenza di elementi in un ordine numerico interposto tra altri due ordini.
  2. Nel momento in cui fu usato un segno di interpunzione, in Egitto (è questa l’ipotesi) analogamente fu usato l’ideogramma della bocca (‘r) o il segno ieratico dell’apostrofo che indicavano il segno di frazione (e quindi anche di divisione e di separazione grafica)
  3. Da questi due segni derivano il tondino e l’apostrofo o il punto usati per scopi simili in ambito greco-ellenistico.
  4. Il termine moira simboleggiato da “Mo†ed indicante “grado†(oggi non a caso simboleggiato da “°â€) vuol dire significativamente “parte assegnata†e rinvia all’ideogramma egizio suddetto (frazione).
  5. I Greci forse non hanno aggiunto niente alle intuizioni precedenti che non rientri nelle sortite felici di un ricco sistema di interazioni culturali.

Sistema posizionale e proto-zero cinese

In Cina durante la dinastia Han (II sec. a.C. – III sec. d.C.) fu elaborato un ingegnoso sistema di numerazione scritta con base decimale con le nove unità semplici descritte ancora pittograficamente I II III IIII IIIII ┬ â•¥ â•¥ â•¥ (Su vantaggi e svantaggi della rappresentazione pittografica e di quella convenzionale dei numeri torneremo a livello di riflessioni più propriamente filosofiche). Questo arcaico simbolismo numerico era ovviamente derivato dalle tacche su legno o su guscio di tartaruga e fu riprodotto anche sulle macchine da calcolo dei suanpan (abachi) e sulle bacchette di calcolo che, come abbiamo visto, pure erano molto utilizzate. Sempre sotto gli Han fu scoperto il principio posizionale Es. 6742 = ┬ â•¥ IIII II

Però rimaneva il rischio di confusione perché si era vincolati ad affiancare altrettante barre verticali per rappresentare unità di ordini consecutivi con rischi di confusione e di errori: Esempi: IIII III IIII = 434 I III III IIII = 1334. Nel caso precedente la differenza si vede agevolmente? Tra le altre cose forse la numerologia oltre al parallelismo greco-ebraico tra lettera e numero si basava anche su questa arcaica confusione tra numeri. Per rimediare si preferì cambiare notazioni : Per le unità semplici le barre non si disponevano più in verticale ma in orizzontale e viceversa funzionava il loro incremento. Esempi:

─   ╠  ≡   ≡   ≡    ┴	╧   etc.
─ â•

Poi siccome i ben noti problemi percettivi si ripresentavano nuovamente, ci fu una seconda trasformazione per cui i diversi ordini numerici venivano rappresentati in modo alternato con barre verticali (unità, centinaia etc.) dette numeri tsung e barre orizzontali (decine,migliaia) dette numeri heng. Esempi:

522 era  IIIII  â•   II 
76.231   era      ╥  ┴  II  ≡  I

Alcune ambiguità erano così eliminate ma, ugualmente la mancanza dello zero rendeva difficile distinguere notazioni del tipo 2666 o 26660 oppure 266600 etc. Anche qui vi fu chi lasciò uno spazio vuoto, insufficiente per le ragioni già esposte E vi fu anche chi utilizzò le potenze di 10 correggendo con un’involuzione in senso moltiplicativo l’originario sistema posizionale. Es. 2640 diventa II â”´ IIII … e cioè 264 x10 (con 10 usato come moltiplicatore o determinativo “decineâ€) 20.064 diventa II (x10.000 con relativo ideogramma) â”´ IIII (2x10.000)+64

Anche in Cina nacque comunque una sorta di zero Alcuni computisti disposero i numeri in dei riquadri tipo tessere che forse stavano per gli ordini numerici (ad imitazione delle asticelle del suanpan ) e lasciavano la casella vuota (come l’insieme vuoto) per ogni unità che mancasse nel rispettivo ordine. Comunque, dall’VIII sec. d.C. i dotti cinesi grazie ai monaci buddisti missionari dall’India ebbero lo zero indiano vero e proprio.

Sistema posizionale e zero presso i Maya

Anche i Maya furono degli elaboratori indipendenti del principio posizionale e dell’uso dello zero. La civiltà maya fu molto sviluppata ed originale. I Maya furono raffinati astronomi: ebbero un’esatta concezione dei moti Sole-Luna-Venere e forse anche Marte-Mercurio-Giove calcolarono la rivoluzione sinodica di Venere calcolarono la durata dell’anno solare con migliore approssimazione del calendario gregoriano calcolarono la durata delle lunazioni elaborarono l’idea del tempo senza limiti lasciarono l’iscrizione con il riferimento più lontano nel passato e con precise indicazioni dei giorni iniziali del periodo cui si allude usavano per le osservazioni astronomiche listelle di legno incrociate con un tubo di giadeite Essi però ignoravano il vetro, la ruota e le frazioni.

I numeri maya erano così rappresentati:

• = 1    		••••• = 5	 ▬   = 9
••= 2	            ▬   = 6 	 ╠   =10	
••• = 3	            ▬   = 7  	 ╠   =11
•••• = 4	▬   = 8	        =20

Dal 20 in poi (il sistema maya era a base vigesimale) scatta il principio posizionale che viene ordinato verticalmente con l’ordine superiore al livello grafico superiore. Esempio 69 ••• 3x20 •••• (4x1)+ (1x5) Il primo livello è 1 Il secondo è 20 (1x20) Il terzo livello è invece 360 (20x18) sarebbe stato 400 (anche qui c’era una base ausiliare 60? Per influenza dei calcoli astronomici e calendariali?) Il quarto livello è 7200 (360x20) E così via.

Sempre in una disposizione posizionale verticale il numero 13.515 era (1x7200)+(17x360)+(9x20)+ 15(3x5) 7200+6120+180+15=13.515

Anche i Maya per indicare un ordine numerico vuoto inventarono lo zero Usando diversi glifi per lo più a forma di conchiglia (forse il simbolo della spirale? O per indicare un guscio vuoto?) 43.212 = (6x7200)+0+0+12(2x5+2x1).

Una delle cause però dell’introduzione dello zero fu strettamente religiosa: per i Maya infatti la numerazione scritta non riguardava i bisogni del calcolo corrente, ma solo le esigenze del calcolo temporale e delle correlative osservazioni astronomiche. I Maya calcolavano il tempo come se fosse in gioco la loro vita. Essi avevano numerosi calendari

  • Lungo Conteggio: 360 giorni in 12 mesi di 20 giorni ciascuno
  • Haab (Anno civile) : 360 giorni + 5 giorni fantasma alla fine (durante i quali non si doveva fare niente, pena grandi disgrazie). I 5 giorni erano chiamati Uayeb (il Dormiente) forse per indicare l’inattività
  • Calendario Tzolkin: 260 giorni di un ciclo congiunto di un mese di 20 giorni e di 13 numeri indicanti le 13 divinità celesti (olontiku) con una sorta di effetto di contrappunto temporale.
  • Ciclo di 52 anni (Ruota del Calendario), di contrappunto tra Calendario Tzolkin e Anno civile (260x365/5)
  • Calendario infero con ciclo di 9 simboli indicanti le nove divinità infere (bolontiku), comandate guarda caso dallo Zero.
  • Calendario lunare di 29-30 giorni
  • Calendario sinodico di Venere (584 giorni)

L’ossessione dei Maya per il calcolo (simile in questo ai Pitagorici, a Galton ed agli affetti da autismo) era legata all’angoscia della morte e della fine del tempo: l’esistenza di più cicli temporali consentiva di sfuggire alla fine di un computo, abbarbicandosi ad un altro ciclo. Il nesso tra computo del tempo e mondo divino rendeva, più che in altre civiltà, la numerazione appannaggio dei soli sacerdoti (che erano anche astronomi) senza rapporti con altre dimensioni come ad es. quella del commercio che tanto stimolava la ricerca di soluzioni pratiche e razionali. Il tempo era un fenomeno sovrannaturale, apportatore di fortuna e sfortuna a seconda del dio (benefico o malefico) preposto a quel periodo temporale (lo stesso schema dell’astrologia probabilmente). I sacerdoti erano mediatori potenti tra dei e popolo Le scansioni temporali erano così determinate: inizio del computo: 12 Agosto 3113 a.C.(o 3114)
  • kin = giorno (sole)
  • uinal = mesi (20 giorni ciascuno)
  • tun = anni (360 giorni ciascuno) (pietra, e cioè stele che scandisce il tempo)
  • katun = cicli (20 anni ciascuno)
  • baktun = 400 anni
  • pictun = 8000 anni
  • fino all’alautun = 64.000 anni.

Un importante monumento è la stele maya A di Quirigua dove è riconoscibile lo zero e che risale leggendo lo scritto a 1.418.400 giorni dall’inizio dell’era Maya e cioè al 24 Gennaio del 771 d.C. Sulla stele troviamo 9 baktun 17 katun 0 tun 0 uinal 0 kin Perché? Perché non c’erano direttamente 9 baktun e 17 katun? Sarebbe stato possibile perché con i determinativi temporali non ci troviamo di fronte ad un sistema posizionale puro e dunque non c’è bisogno degli zero al termine del numero Se non che ad ogni unità di tempo corrispondeva la raffigurazione di un dio che presiedeva a tale ordine temporale e che alla maniera di Atlante si caricava il numero collegato all’ordine temporale/numerico considerato. Ad es. in questo caso il dio che presiedeva ai baktun se ne caricava 9, quello dei katun ben 17. A questo punto se al periodo, come nel caso dei tun. dei uinal e dei kin, che era privo di numero non fosse stato corrisposto un simbolo, gli dei preposti ai tun, ai uinal e ai kin rischiavano di non essere raffigurati e forse si sarebbero offesi mortalmente (aggiungiamo che la rappresentazione figurata sarebbe stata incompleta ed esteticamente improponibile per un popolo pieno di horror vacui come quello Maya) Perciò si dovette escogitare un simbolo per consentire agli dei di caricarsi il niente! Quasi come ministri senza portafoglio nominati per esigenze di lottizzazione politica!

Questo omaggio alle divinità aveva implicazioni ambigue, in quanto da un lato evitava l’offesa agli dei, ma al tempo stesso implicava il rischio che nel passaggio da un mese all’altro, la staffetta tra dei aprisse la possibilità di una lacerazione del tempo: infatti i mesi dell’Haab iniziavano con questa fase intermedia, rappresentata da zero, grazie alla quale il ventesimo giorno del mese era il giorno 19 e grazie alla quale, forse, il tempo era costretto a scorrere indefinitamente allungandosi ad inseguire se stesso ed a rinviare per sempre il redde rationem dell’intero cosmo maya. La fine scongiurata però implicava un inizio sempre rischioso ed abissale. Senza contare che il 20 era in effetti un nuovo zero, un nuovo passaggio, un completamento che era al tempo stesso un inizio (l’analogia tra zero e 20 era data dal rapporto tra il simbolo della conchiglia e quello della luna, mentre non a caso il numero 1 era simboleggiato dalla giovane luna crescente). Le implicazioni filosofiche di questa ipotesi storiografica saranno discusse appresso.

 
Ovviamente i sacerdoti Maya colsero anche i vantaggi aritmetici di questa nuova simbolizzazione e la riportarono poi semplificata (senza glifi religiosi indicatori dell’ unità di tempo) sui loro manoscritti.

Purtroppo però un inconveniente impedì ai Maya di avere uno zero con possibilità operazionali: infatti il passaggio dal secondo al terzo ordine numerico era diverso da tutti gli altri come abbiamo già visto (il moltiplicatore era x18 e non x20). Zero per noi è un operatore aritmetico (es. 460 = 4x100+6x10+0) la cui scrittura si ottiene affiancando “0†a 46 e cioè spostando (facendo scalare) di un ordine tutte le cifre a salire.

Lo zero alla fine di un numero ha una funzione esplicitamente molto diversa da uno zero tra due cifre di un numero: in questo secondo caso all’assenza dello zero si può ovviare allargando gli spazi ed evidenziando uno spazio vuoto. Nel primo caso come si fa? Nel primo caso inoltre lo zero o gli zeri alla fine sono l’indizio di un’operazione come quella del prodotto (x10 x100 x1000 etc.), mentre il secondo esempio nasce da una pratica inizialmente fatta esclusivamente sulle cifre, senza alcun riferimento al significato numerico. Se nei Maya la numerazione fosse stata strettamente vigesimale, essa avrebbe avuto le stesse proprietà di quella indo-araba: l’aggiunta di uno zero ad una rappresentazione numerica avrebbe moltiplicato per 20 il valore numerico di quest’ultima. Come adesso sappiamo, così non è stato.

Conclusioni

Dunque Babilonesi, Cinesi e Maya con il principio di posizione già furono capaci di rappresentare qualsiasi numero con una limitata quantità di cifre di base:

Perché il nuovo sistema posizionale manifestasse tutte le sue positive potenzialità bisognava aspettare la grande esperienza indiana.

L'introduzione indiana dello zero

Che lo zero, con tutte le sue potenzialità e con la numerazione posizionale fosse stato frutto della matematica indiana è un’ipotesi che getta nello sconcerto quelli che vogliono attribuire alla Grecia ed all’Occidente tutto lo scibile possibile ed immaginabile. Per questo motivo si è tentato in tutti i modi di attribuire ai Greci l’invenzione dello zero e del principio posizionale pur senza portare argomentazioni e prove cogenti. Tra i protagonisti di questi tentativi vanno annoverati P.Tannery, G.R.Kaye e D.Pingree, in Italia segue questa linea Lucio Russo. C’è stata ovviamente una reazione nazionalistica indiana altrettanto enfatica tra cui vanno annoverati Datta e Singh, ed in parte Gheverghese. Non si riuscirà ad avere una visione equilibrata della situazione delle culture extra-europee sin quando rimarranno i rapporti imperialistici di potenza a livello internazionale.

Prima di analizzare però questa polemica storiografica è bene seguire inizialmente le tesi di G.Ifrah, che attribuisce all’India (dopo le notevoli approssimazioni babilonesi,cinesi e maya) la paternità di questa rivoluzionaria scoperta: Gli Indiani hanno avuto nel corso della loro storia tre tipi di numerazione:

  • Numeri kharoshthi, dal IV sec. al III sec. a.C. (con sopravvivenze sino al III sec. d.C.) a base 8, con simboli speciali per 10 e 20 e per le potenze di 10 più elevate, composizione additiva dei numeri sino a 100; principio moltiplicativo per la formazione dei numeri più grandi, principio che prevedeva in effetti delle operazioni di moltiplicazione vere e proprie.
  • Numeri brahmi dal III sec a.C., sistema molto più evoluto (simboli distinti per 1, dal 4 al 9, per le decine e le centinaia) e che presenterà più tardi 9 cifre avulse dall’intuizione sensibile (al contrario di Babilonesi,Cinesi e Maya), soluzione simile allo ieratico egizio (da cui si suppone sia stato originato) e al metodo numerico/alfabetico di Greci ed Ebrei. A tal proposito, a metà del secolo scorso, Prinsep e Woepcke ipotizzarono l’origine acrofonica delle cifre brahmi, derivate dall’alfabeto kharoshthi, con un procedimento analogo a quello ellenistico. Il fatto però che tale corrispondenza sia solo parziale, il fatto che i grafemi usati in India fossero tanti per ogni fonema e per ogni numero, fa più correttamente pensare ad uno sviluppo endogeno del sistema di scrittura basato sulla stilizzazione degli ideogrammi precedenti, se non ad una derivazione dallo ieratico egizio diffuso tramite l’Impero Persiano.
  • Dal sistema brahmi gli sviluppi dei ritrovamenti di Bakshali e di Gwalior (questi ultimi IX sec. d.C.) che hanno lo zero.

Circa la serie di cifre brahmi si può anche ipotizzare che il 2 ed il 3 fossero stilizzazioni delle sequenze di trattini usate dalle popolazioni precedenti, che il 5 sia stato mutuato dalla Cina e il 7 ed il 9 dallo ieratico egizio.

Comunque il principio di formazione dei numeri era additivo e la base numerica era decimale: veniva data una cifra speciale alle 9 cifre, a tutte le decine, le centinaia, le migliaia e le decine di migliaia; o meglio, la potenza di un numero (es. 40 che è potenza di 4 ) veniva indicata con un 4 più un determinativo corrispondente dell’ordine numerico richiesto. Es. 7629 era 7000+600+20+9 (7x1000+6x100+2x10+9)

Tuttavia in questo modo le operazioni aritmetiche non erano possibili e la cifra più alta che fosse esprimibile era 99.999, cosa che non poteva soddisfare i sapienti e gli astronomi indiani, affetti da una vera follia dei grandi numeri (quasi hegelianamente si potrebbe dire che la matematica indiana fosse assillata dalla mala infinità, che però in questo caso è stato uno stimolo positivo). A questo proposito va citato un racconto indiano dove nel Palazzo di Indra, re degli Dei c’era una colonna di formiche alta 4 metri; ogni formica sarebbe lo stesso Indra, signore di uno degli innumerevoli universi che galleggiano fianco a fianco, come fragili imbarcazioni nello spazio infinito: ogni Indra vive 71 eoni e le vite di 28 Indra sono 1 giorno ed 1 notte nella vita di Brahma, la cui esistenza dura 108 anni di quei giorni, e prima e dopo Brahma, c’è a sua volta una catena senza fine di Brahma... Ancora va citato il Lalitavishtara, una vita di Buddha del I sec. d.C., dove il giovane Gautama in gara per la mano di una fanciulla deve sostenere una tenzone di matematica e nominare tutti gli ordini numerici dopo 107, con ciascun ordine 100 volte maggiore del precedente : il principe va fino a 10421 , poi nomina tutti gli atomi di uno yojana (equivalente ad una lega = 5 km) con la seguente scansione:

7 atomi più fini formano un granello fine
7 granelli fini formano un granellino
7 granellini una particella visibile in un raggio di sole
7 particelle un grano di un coniglio
7 particelle/coniglio un grano di un montone
7 grani/montone un grano di bue
7 grani/bue un seme di papavero
Poi di fattore 7 in fattore 7 (molte filastrocche compreso un problema del papiro di Ahmes contemplano tale fattore) Gautama giunge al seme di senape, al chicco d’orzo, alle nocche
12 nocche una spanna (sistema di provenienza egizia)
2 spanne un cubito
4 cubiti un tiro d’arco
1000 tiri d’arco un grido nella terra di Magadha
4 grida uno yojana
Per un totale di 384000 x 710 Gautama poi nomina tutti gli atomi del mondo e conclude che tale computo è possibile solo a chi ha raggiunto l’ultima esistenza e dice: “Questa è la fine dei calcoli. Di qui in poi comincia l’Incalcolabileâ€.

Una prima soluzione comunque al problema dei grandi numeri fu il ricorso ai nomi della lingua sanscrita, sistema mutuato dalla numerazione orale ed analogo al sistema numerico letterale di matrice greco-latina. Questo sistema aveva in nuce il principio posizionale e lo zero, e, cosa importante, dava un nome particolare ad ognuno dei primi nove numeri.

1= eka		3709=  nava sapta sata ca trisahasra = nove (nava) settecento (sapta sata) e tremila 
2= dvi								(trisahasra)
3= tri
4= catur
5= panca
6= sat
7= sapta
8= asta
9= nava     

Differentemente da noi, gli Indiani avevano per le potenze dei numeri indipendenti, derivanti forse da determinativi tipici dei sistemi moltiplicativi:

10= dasa		10.000.000= koti  			10.000.000.000.000= sankha
100= sata		100.000.000=	vyarbuda		100.000.000.000.000= samdra
1000=	sahasra	1.000.000.000= padma		1.000.000.000.000.000= madhya
10.000= ayuta		10.000.000.000= kharva		10.000.000.000.000.000=antya
100.000= laksa	100.000.000.000= nikharva	    100.000.000.000.000.000= pararddha
1.000.000= prayuda	1.000.000.000.000= mahapadma

446.742.173.729.551.636 = sat, tri dasa, sat sata, eka sahasra, panca ayuta, panca laksa, nava prayuda, dvi koti, sapta vyarbuda, tri padma, sapta kharva, eka nikharva, dvi mahapadma, catur sankha, sapta samdra, sat madhya, catur antya, catur pararddha.

L’elenco del Lalitavisthara è diverso data la frequenza di sinonimi e di categorizzazioni diverse a seconda del periodo di redazione della fonte:

109 = ayuta		1019 = vivaha			1031 = vyavasthanaprajapti
1011 = niyuta		1021 = utsanga		1053 = tallaksana
1013 = kankara	1023 = bahula			1037 = samaptalambha
1015 = vivara		1025 = nagabala		1047 = vijanjnagati
1017 = asobhya	1027 = titilambha				  

Anche gli scienziati indiani infatti usavano forme di espressione del loro sapere legate alla poesia e perciò, al fine di non ripetere più volte uno stesso termine numerico in un enunciato, facevano ricorso a sinonimi; ciò anche per questioni di mnemotecnica, in quanto ripetere 6-7 volte un termine numerico poteva portare ad errori dovuti alla confusione percettiva di cui abbiamo parlato nelle scorse volte. C’era dunque una ricca sinonimia di numerazione orale di posizione (strumento privilegiato degli astronomi) che evitava monotone ripetizioni.

UNO									DUE
Eka = uno								Dvi = due	
Pitamaha = “Il grande Padre†(Brahma)  			Asvin =  Dei gemelli (Dioscuri indiani)
Adi = L’inizio							Yama = Coppia primordiale
Tanu = Il corpo						Yamala,Yugala= Gemelli, Coppie 
Wara, Ksiti, Go = Terra					Netra = gli occhi
Abja, Indu, Soma = Luna (o la Via Lattea?)			Bahu = le braccia
Gulpha = le caviglie Paksa = le ali

TRE									QUATTRO
Tri = tre								Catur = quattro
Guna = proprietà primordiali	 (sattva,rajas,tamas)			Veda = libri sacri (4 parti) 
Loka =	 I (3) mondi							Dis = Punti cardinali
Kala = Il tempo (passato,presente,futuro)				Sindhu, Abdhi = L’oceano
Agni, Vahni = I fuochi						Yuga = i cicli cosmici
Haranetra = Gli occhi di Shiva					Irya = Le posizioni del corpo
Rama = eroe del poema eponimo					Haribahu = Le braccia di Vishnu
Brahmasya = I volti di Brama

CINQUE								SEI
Panca = cinque							Sat = sei
Bana,Isu = le frecce di Kama					Rasa = i sapori
Indrya = i sensi				Anga= le membra (testa+tronco+2braccia+2gambe)
Rudrasya = I volti di Shiva						Sanmukha = i volti di Kumara
Bhuta = gli elementi						
Mahayajina = I (5) sacrifici

SETTE 								OTTO 
Sapta = sette 								Asta = otto 
Asva = i cavalli di Surya (Sole)					Vasu = Le divinità minori
Naga = Le (7) montagne						Gaja = gli (8) elefanti
Rsi (rishi) = I saggi							Naga = i serpenti
Svara = Le (7) vocali							Murti = le forme di Shiva

NOVE ZERO (quando sarà introdotto) Nava = nove Sunya = Vuoto Anka = le cifre Bindu = Punto Graha = I (9) pianeti Gagana = Firmamento Chidra = Gli orifizi del corpo Akasha = Etere, Spazio libero Viyat = Cielo

Abhra = Atmosfera
Nabhas = Sfera celeste     	 Ambara = Volta celeste, circonferenza
Vishnupada = Piede di Vishnu
Purna = Completo, Intero
Randhra = Buco
Antariksha = Spazio intermedio
Kha = Luogo, Spazio
Ananta = Infinito

Senza contare Arnava (ancora Oceano) per 4, Anguli (dita) per 10, Surya (sole) per 12. In un testo sanscrito del 629 d.C. il numero dei 4.320.000 del Caturyuga (ciclo cosmico oggetto di ardite speculazioni metafisiche) veniva così espresso:
Viyadambarakasasunyayamaramaveda
Viyat-ambara-akasa-sunya-yama-rama-veda
Etere-etere-spazio-vuoto-coppia-rama-libri
0	0	0	0	2	3	4

Il metodo può sembrare puerile, ma la poesia ha svolto un ruolo preponderante nella cultura indiana: infatti le opere letterarie, matematiche, teologiche ed astronomiche sono tutte in versi Un problema di aritmetica diventava uno schema di versificazione figurata come nell’enigmistica. Una sorta di Gioco delle perle di vetro. Un enunciato con un numero astronomico somigliava ad un poema epico.

Con questo metodo vi erano

  • Vantaggi mnemonici (il contabile recitava versi per situare le cifre nel corso delle operazioni)
  • Vantaggi estetici ( il numero era come una tessera di un mosaico incastonato a prova di errore)
  • Vantaggi pratici (il simbolo poetico versificato era molto meglio comunicabile di una forma grafica mal precisata)

Tale metodo però era inapplicabile nelle operazioni aritmetiche: come sommare “frecceâ€, “vocali†e “pianeti†oppure dividere “volti di Brahma†per “braccia di Vishnu†?

A questo punto ci furono altri passaggi:

  1. Essendo in pratica il sistema posizionale una sorta di “proiezione†dell’abaco sulla carta,
nelle colonne dell’abaco gli Indiani invece di inserire i sassolini (neutri dal punto di vista del significato facciale immediato) mettono già le cifre della vecchia notazione numerica. Il problema era a tal punto di rendere mnemonica una parte del calcolo : gli apici di Gerberto, gettoni d’abaco con cifre sovrascritte sono gli eredi a tal proposito di analoghe tessere usate dagli Indiani e di tessere usate in Egitto con numeri rappresentati con le dita delle mani. Ogni gettone aveva un contrassegno corrispondente ad una certa quantità di calculi neutri di valore unitario
  1. Poi dal VI secolo si applicò il principio posizionale. A tal proposito è controverso se il grande matematico e astronomo Aryabatha conoscesse il nuovo sistema di numerazione: egli elaborò un’originale ed articolato metodo di registrazione numerica, che gli permetteva una notazione certo più economica del Suryasiddhanta; tale metodo consisteva nel dare un valore convenzionale ad ognuna delle 33 consonanti sanscrite (alle 25 consonanti varga i numeri appunto da 1 a 25; alle 8 consonanti avarga le decine da 20 a 100; alle vocali che erano nove le potenze pari di 10 da 100 a 1016 ). I numeri risultavano essere gruppi sillabici formati da una consonante varga, una consonante avarga e da una vocale (es. sta = (90+16)x1= 106; sgi = (90+3)x102 = 9300; kigva = [1x102 +( 3+60) x 1] = 163; cayaguyu = 6x1+30x1+3x104+30x104 = 333.036 ). Da questa notazione sembrerebbe che il sistema posizionale sia ben lontano, ma quando Aryabatha insegna l’estrazione di radice quadrata e cubica, distinguendo in un numero (es. 85.768) le parti varga (8,857,85768) dalle parti avarga (85,8576), ed inoltre riferendosi a termini corrispondenti allo zero, egli si rivela perfetto conoscitore del sistema posizionale. L’ipotesi più plausibile a questo punto è che egli operava indifferentemente con l’abaco e con la scrittura e le regole da lui enunciate valevano per entrambi gli strumenti.
  2. E fu innestato un simbolo (un punto o un cerchietto vuoto, questo forse di provenienza alessandrina) per zero, simbolo che sino ad allora era utilizzato solo per indicare nomi di numero o parole metaforiche che stavano per un numero (le abbiamo già viste).
  3. A questo punto l’abaco può scomparire e le cifre assumono valore variabile a seconda della posizione nelle rappresentazioni numeriche. Non tutte le culture erano meglio predisposte a fare questo successivo passo: ci volevano culture che avevano già una rappresentazione indipendente dei numeri (gli Egizi con la ieratica, gli Ebrei e i Greci con l’alfabetica, gli Indiani con il brahmi ). Gli Indiani fecero questo passo probabilmente perchè scrivevano su foglie (più economiche) e non sul costosissimo papiro (in tal caso conveniva forse mantenere l’abaco).
  4. Il verso della notazione numerica fu invertito, la scrittura delle unità dei diversi ordini decimali non avvenne più nel senso delle potenze crescenti di 10, i numeri furono rappresentati da sinistra a destra (il verso delle operazioni all’abaco) seguendo le potenze decrescenti di 10 a partire dalla cifra associata alle unità più alte.
  5. Con questo sistema furono superate le difficili regole di utilizzo dell’abaco, che non consentiva di rilevare eventuali errori, dato che non rimaneva traccia degli stati intermedi delle operazioni.

Con lo zero gli Indiani fecero molti progressi: le moltiplicazioni ad es., ben più fattibili con la nuova notazione, si cominciarono a praticare diffusamente a partire dal VI secolo. Es.
325x28
·	325
28
·	2x3=6	6325
28
·	8x3=(2)4			2	
6425		8425
28	28
·	8425
  28
·	2x2=4		4
 			          8425		8825	
				28		  28

· 8x2=16 1 8865 8965 28 28 · 8965 28 · 2x5=10 10 1 8965 8065 9065 28 28 28 · 8x5=40 4 1 9060 9000 9100 = 9100

28 28 28

Con gli Indiani dunque giunsero a convergenza le storie parallele della notazione numerica e del calcolo. Quest’ultimo fu in un certo senso molto democratizzato.

Non sembri strano a tal proposito che un’esigenza di democratizzazione del sapere fosse portata avanti all’interno della cultura dell’India delle caste: infatti proprio la natura prevalentemente religiosa e totalizzante della cultura indiana fu un fattore di circolazione del sapere all’interno degli ambiti in cui tale circolazione era possibile, per cui la dimensione amministrativo-statuale e quella commerciale beneficiarono anche se molto parzialmente dell’innovazione avvenuta in campo matematico-astronomico, innovazione che veniva spesso messa in versi (si pensi ad una poesia amorosa del poeta indiano Biharilal che paragona il punto sulla fronte della sua amata allo zero che ne moltiplica per dieci la bellezza!) Probabilmente in campo ellenistico i matematici che non erano sacerdoti e (proprio per questo) non avevano contatti con altre dimensioni della società che non fossero mediati dalla monarchia e dal suo apparato per cui il loro sapere non aveva altri sbocchi se non quelli interni alla ristretta comunità culturale di cui facevano parte o nelle tecnologie strettamente funzionali agli interessi del despota che servivano.

Il sistema comunque a questo punto era diverso da quello numerico-letterale (limitato da un alfabeto finito di 22 e 27 lettere). Le potenze di 10 erano nominate in un ordine preciso per cui si potevano eliminare a questo punto nomi ed indicatori di basi e di potenze, facendo rimanere così solo la successione numerica: 7629 diventa nava dvi sat sapta undici è eka eka

Si costruisce dunque una numerazione orale posizionale rigidamente fondata sulla mancanza di nomi di indicatori di ordini numerici. Cosa fare però a questo punto con numeri tipo 301? Sarebbe necessario (vista l’impossibilità di dire eka tri data l’ambiguità) tornare, come facevano i Cinesi ai determinativi e dire eka ca tri sata. Viene allora usato un vocabolo speciale e cioè sunya (vuoto) e 301 diventa eka sunya tri. Il concetto di sunya era già stato usato dal grammatico Panini (IV sec.a.C.) per indicare l’assenza di suffisso in una parola.

In realtà un altro vocabolo molto usato è kha (spazio) che meglio esemplifica la prima funzione di “zeroâ€, quella cioè mediale di ordine numerico vuoto, di colonna d’abaco senza numero, senza gettone.Forse questo termine precede temporalmente sunya e condenserà attorno a sé tutte le altre proprietà di questo nuovo segno, anche se sunya alla lunga sarà il termine più decisivo e significativo.

Erano dunque a disposizione tutti gli ingredienti

  • Cifre non ideografiche per i numeri (forse con ascendenza del ieratico egizio)
  • Principio di posizione orale e scritto (con origini orali e rituali)
  • Zero

Ma la regola posizionale e lo zero si applicavano solo nella versificazione orale. Finché nel V sec d.C. e forse precisamente nel 25 Agosto del 458 d.C. in un trattato di cosmologia jainista, il Lokavibhaga, compaiono le prime cifre scritte con lo zero: In questo testo 14.236.713 è reso come triny ekam sapta sat trini dve catvary ekakam . 13.107.200.000 invece è reso con sunya sunya sunya sunya sunya dvi sapta sunya eka tri eka. Ognuno degli enunciati del testo è precisato dall’espressione sanscrita sthanakramad (“nell’ordine della posizioneâ€).

Ifrah suppone che gli autori del trattato volevano rivolgersi ad un vasto pubblico in quanto oltre a precisazioni di questo genere avevano evitato sistematicamente nel testo particolari troppo tecnici e una terminologia troppo specialistica , e ciò perché volevano fare più propaganda religiosa che altro. Se così fosse si dovrebbe dedurre che il procedimento fosse noto da tempo e già diffuso al di fuori degli ambienti scientifici.

In realtà ci sono altri due candidati al titolo di “primo zero†indiano documentato: Il primo risalirebbe al 270 d.C. e sarebbe contenuto nel Yavanajataka (l’oroscopo dei Greci) scritto da Sphujidhvaja su un originale in prosa del 150 d.C., più o meno alla stessa epoca degli “zero†sessagesimali di Claudio Tolomeo. Alcuni studiosi pensano che questa sia la prova che lo “zero†sia comunque retaggio greco, ma altri studiosi ne contestano la datazione. In quest’opera 60 è citato come sat binduyutani e poi come sat khayutani.Il problema è non tanto se la cultura ellenistica abbia fornito o no lo zero (e su questo tutte le discussioni sono possibili), ma “quale zero†abbia eventualmente fornito. La tesi di chi scrive è che lo zero ellenistico non aggiunge niente a quello neobabilonese, e perciò lo scatto decisivo sarebbe “farina del sacco indianoâ€.

Il secondo candidato si trova in un testo di argomento aritmetico su di una corteccia di betulla trovata a Bakhshali (sistema posizionale e molti punti corrispondenti a zero e chiamati sunya). Inizialmente lo scopritore Hoernle lo datò al III sec. d.C. circa, ma Kaye lo riportò al XII secolo. Oggi si propende ad una datazione intermedia (VII sec d.C.) ma comunque va spiegato perchè i valori monetari utilizzati nelle esemplificazioni (denari e drachme) sono quelli del periodo ipotizzato da Hoernle. A partire dal VI sec. d.C. lo zero si diffuse, quale che fosse la sua prima apparizione, anche fuori dall’India

  • 400 circa d.C. nel trattato astronomico Suryasiddhanta troviamo la dicitura kha catuska rada arnavas (e cioè vuoto quattro volte denti oceano e cioè quattro trentadue quattro zeri e cioè 4.320.000). La riflessione d’obbligo a questo punto è: se lo zero lo ritroviamo nella forma in prosa e cioè nella trascrizione della forma orale e/o versificata, quando la necessità dello zero è una necessità prima di tutto grafica, da quanto tempo il grafema “zero†è in circolazione? Chi scrive pensa che il segno fosse in uso da molto tempo ed è la fragilità del materiale usato a negarci testimonianze più antiche.
  • 510 d.C. testimonianza di Aryabatha: se si riflette sulle conoscenze di quest’ultimo pure si deve convenire su una retrodatazione di lungo respiro.
  • 575 d.C. uso dello zero da parte dell’astronomo indiano Varahamihira
  • 595 d.C. più antico documento epigrafico indiano a Sankheda (donazioni su rame) con 9 cifre e principio di posizione
  • 598 d.C. più antica iscrizione sanscrita della Cambogia (la data 520 saka è resa con lo zero e il sistema posizionale)
  • 620 d.C. Subandhu nel suo Vasavadatta recita che le stelle punteggiano il cielo come sunyabindu (punti-vuoto, punti zero), mentre il Dio Supremo calcola il totale sul cielo blu inchiostro usano una falce di luna come gessetto.
  • 628-629 d.C. Bhaskara I impiega zero e principio posizionale
  • 662 d.C. testimonianza del vescovo siriano Severo Sebokt su metodi indiani di calcolo mediante le nove cifre.
  • 683 d.C. più antica iscrizione khmer (a Sambong) con il metodo indiano di notazione numerica (il numero denotato è il 605)
  • 686 d.C. le più antiche iscrizioni in malese (a Palembang) con datazione con zero e principio di posizione; i numeri in questione sono 60 e 606.
  • 687 d.C. la più antica iscrizione sanscrita del Champa con il principio di posizione
  • 718-719 d.C. testimonianza di astronomo buddista di origine indiana stabilitosi in Cina su zero e principio di posizione
  • 732 d.C. più antica iscrizione sanscrita di Giava con data con sistema numerico di posizione
  • 760 d.C. più antica iscrizione vernacolare di Giava con data con zero e principio di posizione
  • VIII d.C. comparsa della zero indiano nella numerazione posizionale cinese
  • 773. d.C. introduzione numerazione indiana in terra islamica: Al-Mansur, califfo di Baghdad riceve una delegazione di studiosi indiani che gli presenta il nuovo sistema di numerazione.
  • 813 d.C. più antica iscrizione vernacolare del Champa (Ponagar nel Vietnam) datata con zero e principio posizionale
  • 820 d.C. Al Khuwarizmi scrive un opera sul sistema di numerazione indiano, dove dice che, quando dopo una sottrazione non rimane nulla essi (gli Indiani) mettono il cerchietto in modo che il posto non rimanga vuoto; il cerchietto deve occupare la posizione perché altrimenti ci sarebbero meno cifre e quindi la seconda potrebbe essere scambiata per la prima...Al Khuwarizmi studiava e traduceva anche Diofanto: perchè dunque attribuiva comunque l’invenzione agli Indiani? Anche questo è un punto su cui riflettere...
  • 875 d.C. più antiche iscrizioni lapidarie indiane a Gwalior con metodo posizionale e uso dello zero. Gli studiosi più accanitamente prevenuti continuano a pensare che sia la prima testimonianza indiana dello zero e del metodo posizionale
  • IX sec. d.C comparsa delle cifre ghobar tra Arabi maghrebini e spagnoli
  • 976-992 d.C. manoscritti Spagna non musulmana con cifre simili a quelle ghobar (più antica testimonianza europea, ma probabilmente il primo incontro risale a 100 anni prima)
  • 990 d.C. missionari ismailiti egiziani portano le cifre indo-arabe in Russia
  • X-XII sec d.C. uso promosso da Gerbert de Aurillac di gettoni di corno contrassegnati da cifre indo-arabe e detti apices
  • 1100 circa d.C. Avraham Ben Ezra diffonde nuovo sistema presso gli Ebrei. Ben Ezra usa il termine galgal (ruota) per indicare lo zero, termine che ricorda il kha indiano che designa anche il foro della ruota in cui si infila l’asse (e ciò ricorda una metafora del cinese Tao-te-king che potrebbe essere considerata un’ulteriore anticipazione filosofica dello zero stesso)
  • XII sec. introduzione dello zero in Occidente con operazioni fatte senza le colonne su sabbia (algorismi)
  • XIII-XVI sec. Comparsa del calcolo su carta e penna
  • XV sec. generalizzazione dell’uso del nuovo metodo.

 
Gli Indiani, contrariamente a Maya e Babilonesi, aggiunsero al significato già dato di zero (e cioè spazio vuoto, vuoto come relazione, “non c’è xâ€), quello di
  • Vuoto/nulla
  • Quantità nulla
  • Sostanza
  • Numero zero

Questo cambiamento fu forse dovuto alla speculazione della scuola Madhyamika e del suo più famoso esponente Nagarjouna. Non si vuole pensare come faceva O. Spengler nelle sue semplificazioni storiche che solo in India sarebbe potuto partorire lo zero, perchè è semplicemente falso. Tuttavia c’è forse una riflessione filosofica che ha preceduto o accompagnato questa innovazione: tale riflessione è quella buddista del Sutra del Cuore (Prajnaparamita hridaya sutra) uno scritto tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. dove si dice che ogni forma (rupa) è vuota (sunya) ma che la Vuotezza (Sunyata) è anch’essa forma, una versione filosofica del passaggio dall’idea dell’assenza di numero al numero dell’idea di assenza (dallo zero babilonese allo zero indiano). La scuola della Madhyamika, basata sul commento di questi testi ed ebbe in Nagarjouna (II sec d.C.) il suo principale esponente, professa l’interdipendenza di tutti gli enti e la mancanza dell’essere-in-sé di ogni ente, a riecheggiare il principio posizionale per cui il numero rappresentato da una cifra dipende dalla posizione della cifra stessa. Il fisico J.D.Barrow che ha studiato l’evoluzione dei sistemi di numerazione afferma che mentre in Mesopotamia lo zero aveva una dimensione semantica elementare e unidimensionale, in India esso era parte di un più ampio spettro filosofico di significati connessi al Vuoto, per cui l’innovazione avvenuta era più naturale e prevedibile. Ci sono pure studiosi come R. Kaplan che cercano di trovare in Grecia tutte le fonti possibili di un’analoga rivoluzione, ma la ricerca è troppo dispersiva dal punto di vista temporale e tematico (si scomoda l’arytmos del pitagorico Timarida, la chora del Timeo di Platone e la dynamis aristotelica con evidenti difficoltà di sintesi) mentre in India è tutto molto più circoscritto ed attendibile dal punto di vista della storia delle idee.

Dunque il sistema indiano, rispetto ad altri sistemi, annoverava

  1. Cifre di base non pittografiche o ideografiche (contrariamente a Babilonesi, Cinesi e Maya)
  2. Zero come operatore, cioè alla fine del numero (Babilonesi sì, Maya e Cinesi no)
  3. Zero come numero in sé su cui poter fare operazioni (al contrario di Babilonesi, Maya, Cinesi e Greci)
  4. Capacità operatoria senza abaco ma simile a quella dell’abaco (al contrario di Babilonesi, Cinesi e Maya)

Gli Arabi furono i diffusori del sistema numerico indiano. Essi salvarono molto del sapere antico, lo diffusero, lo elaborarono ed inaugurarono un’epoca brillante per la scienza. Tutto questo naturalmente dopo l’anno 1000. In precedenza erano popolazioni guerriere e distruttrici (vedi la distruzione della biblioteca di Alessandria ad opera del Califfo Omar) Essi adottarono il sistema numerico indiano: l’uso dei simboli alfabetici greci per i numeri era perdurato fino al X secolo, quando si diffusero due insiemi di numerali arabi, quelli dell’est e quelli dell’ovest; entrambi adoperavano i simboli indiani per i numerali da 1 a 9 ma non per lo zero. Essi si avvalevano di una semplice forma di notazione posizionale che permetteva di evitarlo (se ad es. una cifra indicava decine si metteva un punto sopra la cifra, se centinaia due punti; Kaplan a tal proposito assimila tali punti a veri e propri zero dimenticando che questi punti non essendo incolonnati non avevano possibilità operatorie ma avevano solo una funzione di specificazione della cifra su cui erano posti). Poi gli Arabi dell’Est introdussero il cerchietto dello zero ed uniformarono completamente la loro notazione all’uso indiano. Gradatamente venne adottato l’intero sistema: Cifre/numerazione decimale/numerazione posizionale/ zero/ metodi di calcolo Un autore arabo sostenne apertamente che il metodo adottato era più agile, più comprensibile, più agevole da insegnare (comunicabile) Gli Arabi cercarono di sintetizzare le intuizioni indiane e lo spirito logico-sistematico greco. In Europa, prima della diffusione del sistema indiano, l’arte di fare calcoli era stretto appannaggio di una casta di specialisti che avevano un livello universitario di preparazione per l’utilizzo (misterioso e complesso) degli abachi: Il mercante medievale che voleva educare il figlio si vide rispondere che per l’addizione e la sottrazione andavano bene tutte le università, per la moltiplicazione e la divisione solo le Università italiane.

Il divulgatore in Europa delle cifre arabe fu Gerbert de Aurillac che travestito da arabo frequentò Siviglia e Cordoba ed imparò la nuova numerazione (non scritta ma su tavole da calcolo), ma riscontrò una strenua resistenza nel diffonderla e fu accusato di essere alchimista, mago e addirittura l’Anticristo, pur essendo diventato nel frattempo Papa col nome di Silvestro II (anno 999: quando si dice la sfiga!). La causa di tale difficoltà fu dovuta alla provenienza araba (gli infedeli!) delle nuove cifre ed al fatto che consentivano (diabolicamente!) la mutazione dei numeri aggiungendo semplicemente una cifra (gli attuali asterischi attorno alle cifre degli assegni bancari sono una traccia ancora visibile di questo problema!). Comunque le cifre indo-arabe inizialmente semplificarono l’uso delle tavole da calcolo (come pure in India): sui gettoni d’abaco erano incise le nuove cifre ed ognuno di essi ebbe un nome individuale; in Europa erano:

1= igin (da eka? Tedesco eigen)   4= arbas		7= zenis
2= andras			        5= quimas	8= temenias
3= ormis    			        6= caltis		9= alentis	

Lo zero non era utilizzato in quanto bastava lo spazio vuoto dell’abaco, oppure veniva utilizzato un gettone con su il simbolo ^ che era forse l’accento che si metteva sui numeri per indicarne l’appartenenza ad ordini superiori all’unità. Tale gettone con il simbolo interno si evolse probabilmente nel simbolo che pure indicava lo zero della Theta/theca che può essere così espresso Θ.

Lo zero forse venne inizialmente diffuso in maniera esoterica (ad es. probabilmente i tarocchi erano un misto di 23 segni del sistema letterale greco-ebraico più il Matto che potrebbe essere un travestimento dello Zero).

I cambiamenti della forma delle cifre furono favoriti dagli orientamenti diversi delle diverse scritture che facilitavano la rotazione spaziale delle cifre stesse e quindi le loro ulteriori modifiche. Oltre agli stili sempre diversi di scribi e copisti, la manipolabilità dei gettoni aumentò l’iniziale confusione, finchè la stampa fissò le forme delle cifre su prototipi ben precisi adottati una volta e per tutte.

I Crociati portarono altre scoperte arabe in Europa e consentirono la sortita dei primi algoristi europei (per algoristi si intende chi faceva operazioni senza l’abaco) Circa 200 anni dopo Gerbert de Aurillac, Leonardo Fibonacci riportò in Occidente le cifre indo-arabe dopo essere andato in Maghreb ed in Medio Oriente.

Iniziò allora un conflitto religioso e culturale tra algoristi ed abacisti vinto dai primi dopo molto tempo: l’abaco si insegnava ancora nel XVIII secolo (ed in Giappone lo si fa ancora!), il calcolo scritto aveva fortuna presso gli scienziati, ma non presso i commercianti (anche se una delle svolte per la vittoria del nuovo sistema di notazione fu la nascita della partita doppia dove crediti e debiti venivano situati in serie/colonne parallele con lo zero che faceva da fulcro e da indice di buona amministrazione in quanto risultato della loro differenza), finchè con la Rivoluzione Francese si vietò l’uso dell’abaco nelle scuole, si diffuse il sistema decimale e si unificarono i sistemi di misurazione.

Come in ogni biforcazione culturale si dovette fare una scelta, qualcosa andò perduto (ed i Giapponesi lo vogliono giustamente ancora conservare) ma la scelta fatta fu forse la migliore in quanto permise una maggiore diffusione del sapere (alcuni come Barrow e Rotman mettono in correlazione questo processo e la nascita della perspectiva nelle arti figurative con il punto di fuga, una sorta di punto-zero dello sguardo, che risistema le figure non più secondo la loro dimensione/importanza ma secondo la semplice distanza spaziale dall’osservatore). Ce ne fossero di rivoluzioni culturali del genere più spesso!

Interessante ed anche filosoficamente rilevante l’origine comune delle parole “zero†e “cifraâ€. Il termine indiano Sunya divenne l’arabo sifr. Quest’ultimo da un lato divenne in Leonardo Pisano zephyrum poi “zefiro†ed infine zero. Attraverso un altro percorso esso divenne prima sifra e poi “cifraâ€, che inizialmente aveva lo stesso significato di “zero†e poi dal 1491 significò la cifra e cioè un segno per un numero, o quasi un meta-numero (del resto in inglese zero per molti anni è stato “cipherâ€). Ifrah spiega la cosa dicendo che, essendo “zero†il numero fondamentale del nuovo sistema numerico, l’elemento più importante designò alla fine il tutto, il nome di una delle cifre designò il termine generale “cifraâ€.

A parte però la spiegazione storica c’è un senso filosofico di tutto questo percorso dell’etimo: lo zero, a cui non corrisponde nessuna molteplicità, fa intervenire proprio il segno in quanto tale all’interno stesso del mondo delle essenze e dei contenuti, ed invera in un certo senso il platonismo nel momento in cui gli toglie una certa razionalistica pretesa di coerenza. E questo deve essere un oggetto di riflessione.

Sulla teoria esposta da G.Ifrah molti storici hanno esposto obiezioni che cercano di sminuire il ruolo dell’India nel compiere questa rivoluzione cognitiva. Tra le altre cose questi storici sostengono che

  1. I contributi indiani sono stati grossolanamente esagerati: la numerazione moderna ha una matrice greca ed è stata diffusa da Alessandria verso l’India e verso l’Africa nord-occidentale.
  2. In Giamblico c’è già l’oudén. Ma ancor prima il simbolo attuale dello zero si trova già nei primi papiri alessandrini (III sec. a.C.) e nelle tavole trigonometriche pure alessandrine.
  3. Archimede nell’Arenario (Psammites) (III sec. a.C.) elabora un sistema di numerazione equivalente al metodo posizionale e tale sistema, assieme all’astronomia, fu importato in India. Archimede voleva dimostrare che era possibile nominare e costruire numeri più grandi di quello dell’insieme di granelli di sabbia che potrebbero essere contenuti nell’intero universo, con prove di carattere geometrico:
    • egli presuppone che un mucchietto di sabbia grande come un seme di papavero contenga 10.000 granelli;
    • poi suppone che 40 semi di papavero (assimilabili ognuno ad una piccola sfera) messi in fila raggiungano la larghezza di un dito e di questa sezione calcola l’area, utilizzando i granelli di sabbia come unità di misura: 403 (64.000, volume di 40 semi) x 10.000 (granelli per seme). Se si arrotonda 64.000 a 100.000 il prodotto diventa 109
    • Essendo uno stadio la larghezza di un dito per 10.000, il volume di granelli raccolti in semi di papavero è 104 elevato a 103 e cioè 1012 che moltiplicato per 109 diventa 1021
    • Archimede poi costruisce una sfera immaginaria S con il diametro uguale alla presunta distanza Terra-Sole ed ipotizza una proporzione tra Diametro Terra/Diametro S e Diametro S/Diametro Universo (sfera stelle fisse)
    • A questo punto egli calcola che il diametro dell’universo sia di 1014 ed il volume 1042 per cui la quantità di granelli sarebbe 1042x1021 e cioè 1063
    • Archimede non si ferma qui: egli costituisce numeri sempre più grandi che poi riduce ad unità di ordini superiori e poi gli ordini li riunisce in periodi sino a raggiungere alla miriade di miriadi di miriadi del miriadesimo ordine della miriade del miriadesimo periodo e cioè 1080.000.000.000.000.000 e cioè 100.000.000x1 seguito da 800.000.000 di zeri.
    • Kaplan sulla base dell’Arenario ipotizza che i grandi numeri del Lalitavisthara siano pure derivati dall’Ellenismo.
  4. Le grandezze incommensurabili usate in India non erano accompagnate da sufficiente consapevolezza teorica.
  5. L’algebra sviluppatasi nel XVI sec. in Europa aveva origini più islamiche che indiane.

A queste obiezioni si può rispondere:
  1. All’inizio i grafismi maghrebini e quelli orientali erano simili e si sono differenziati molto dopo l’era ellenistica (la nascita delle cifre gopher/ghobar risale al X secolo). Dunque essi non hanno un’origine comune alessandrina. La natura specifica delle cifre, il ruolo svolto dalla versificazione e dalla numerazione orale, la distanza di 3-4 secoli tra l’epoca alessandrina e lo sviluppo della matematica indiana classica, l’importanza già riscontrabile in epoche arcaiche per i grandi numeri, l’importanza filosofica del concetto di Sunyata rendono complessivamente la genesi del sistema posizionale e dello zero in India un processo autonomo ed originale, pur senza negare spunti ed influenze dall’esterno.
  2. Il simbolo indiano dello zero (e cioè sunya, il circoletto vuoto) non è stato ripreso obbligatoriamente dalla Grecia, ma piuttosto (come la conchiglia semichiusa dei Maya ed il riquadro vuoto dei Cinesi) è un’ autonoma e ricorrente soluzione grafica (come i puntini o le barrette per indicare le unità) per designare quello che verrà chiamato l’insieme vuoto, una cornice cioè senza contenuto (alcuni psicologi cognitivi suppongono che tale raffigurazione sia legata a forme di rappresentazione standard elaborate dal cervello umano e dunque legate ad una struttura innata e comune a tutti gli uomini). Storicamente dunque la somiglianza tra i segni potrebbe non essere significativa. Subash Kac ipotizza una derivazione dello zero dal 10 della numerazione brahmi (una sorta di pesciolino stilizzato) che si sarebbe poi scisso nell’uno e nello zero della numerazione Gwalior.
  3. Il ricorso ai grandi numeri nella letteratura religiosa indiana sembra contemporaneo o addirittura precedente alla presunta influenza alessandrina, e legato alle pratiche mnemotecniche delle culture orali: nello Yayurveda si attribuiscono nomi specifici alle potenze di 10 fino a 1012. Nel Ramayana (più o meno redatto contemporaneamente ad Archimede) l’esercito del semi-dio Rama è di 1010+1014+1020+1024+1030+1034+1040+1044+1052++1057+1062+5 . E’ più probabile che l’Ellenismo abbia tratto spunti da questa matematica (l’Infinito nella riflessione greca da Platone in poi era arreton ed Euclide dimostra in maniera puramente logica l’esistenza di infiniti numeri primi, senza cioè far ricorso a rappresentazioni numeriche) per svilupparla più sistematicamente e l’abbia poi restituita potenziata alla cultura indiana che l’ ha poi sviluppata. Dire poi come fa Lucio Russo che Archimede abbia sviluppato un metodo equivalente a quello posizionale è sbagliato: Archimede ha fatto molto di meno e molto di più, nel senso che con un metodo meramente moltiplicativo ha ideato una sorta di notazione esponenziale che però non ha avuto futuro, senza la mediazione di una notazione posizionale. Quest’ultimo consente anche ad uno stupido di costruire grandi cifre che con i metodi in uso presso i Greci solo un grande matematico come Archimede avrebbe potuto fare. Intanto immaginiamo la padronanza indiana del metodo archimedeo che veniva messo in versi in storie di tenzoni amorose (come se oggi uno mettesse in versi il teorema di Godel!)
  4. La consapevolezza filosofica e teorica dell’uso dei grandi numeri in India è dimostrato dalla matematica Jaina (II-I sec a.C.) che oltre a padroneggiare i grandi numeri dividono i numeri stessi in
    • Numerabili che partono da 2 per andare all’infinito (i Jaina affermano che non v’è massimo numerabile)
    • Non numerabili (asmkhyata) (quasi non numerabili; assolutamente non numerabili; innumerabilmente non numerabili)
    • Infiniti (Ananta) (quasi infiniti; assolutamente infiniti; infinitamente infiniti)
    • Altre 5 specie di Infinito: Infinito in una direzione; Infinito in 2 direzioni; Infinito nell’area; Infinito ovunque; Infinito eterno.
    • Se Euclide ha dimostrato l’esistenza dell’insieme infinito di numeri primi e Archimede di diversi ordini dei grandi numeri, i Jaina hanno ipotizzato l’esistenza di diversi Infiniti, anticipando la teoria dei Transfiniti di Cantor.
  5. Fu Brahmagupta colui che forse per primo fece operazioni con lo zero, utilizzandolo rivoluzionariamente come un numero vero e proprio, mettendo in pratica l’esser forma (rupa) del Vuoto (Sunya). Brahmagupta sosteneva che un debito detratto dal nulla diviene un bene ed un bene detratto dal nulla diviene un debito. I numeri negativi invece erano già conosciuti in Cina nel III sec a.C e metodi algebrici erano noti in Mesopotamia. Gli arabi dunque perfezionarono l’algebra ma non l’ hanno inventata.
  6. Una delle difficoltà circa la presunta origine alessandrina di molte scoperte matematiche è che esse si ritroverebbero presso altre civiltà (come quella indiana) sotto formulazioni e notazioni matematiche completamente diverse. Dato ciò è poco plausibile pensare che le conoscenze matematiche potessero essere esportate “a pacchettiâ€, come pretendono i “tifosi†della matematica greca. Un’altra difficoltà riguarda il fatto che sembra strano che gli Arabi abbiano mutuato il nuovo sistema di numerazione dall’India e non dalla riscoperta del sapere greco che essi comunque stavano compiendo. Sembra inoltre che quali che fossero le intuizioni e le scoperte greche, esse non sono state portate a compimento combinando, come fecero gli Indiani, la notazione numerica con i metodi di calcolo. Come si spiega questo? Il ricorso all’opera di distruzione svolta dai Romani è un argomento troppo abusato e ci dà un’immagine distorta della civiltà latina. Come si spiegherebbe inoltre l’egemonia della notazione alfabetica greca se un sistema posizionale con lo zero fosse già stato compiutamente elaborato nello stesso periodo? La verità probabilmente è che le possibilità operatorie dello zero e del sistema posizionale non erano state intuite e dunque non vi fu interazione tra un’eventuale notazione usata a livello scientifico e quella effettuata nel corso delle pratiche commerciali o di altre occasioni quotidiane. In pratica, come già detto, la scienza ellenistica sembra essere stata una scienza in parte avulsa dal contesto sociale prossimo. Lo zero da questi storici in pratica viene considerato come una sorta di cagnolino da diporto delle tavole trigonometriche di Tolomeo gettato in pasto ai poveri Indiani che, non si sa come (e questo dà da pensare!), ne hanno fatto qualcosa di essenziale per lo sviluppo successivo delle scienze e della società. Questi storici infine non valutano nella loro importanza l’utilizzo delle zero cuneiforme che fu sistematizzato in epoca seleucide, ma che ha antecedenti nel periodo neo-babilonese. Probabilmente questa potrebbe essere la fonte comune dello zero ellenistico e dello zero indiano.

Concludendo si può dire che si può attribuire alla matematica indiana:

  • Lo zero come numero vero e proprio
  • Il sistema di numerazione moderno
  • Le operazioni aritmetiche moderne (senza abaco)
  • L’invenzione dell’algebra fatta con lo zero e i numeri negativi

Tuttavia è necessario dire che lo studio della storia della notazione numerica ci ha reso consapevoli che tutte le rivoluzioni cognitive sono il frutto di mille fattori e di mille idee e sono patrimonio di tutta l’umanità sia nell’elaborazione che nella fruizione. Non esistono dal punto di vista culturale delle civiltà più atte al sapere ed alla scienza; il fatto che la numerazione indo-araba si sia diffusa un po’ in tutto il mondo è una testimonianza in tal senso: non conta chi abbia elaborato una idea, ma quanto ci mettono tutti gli altri ad apprenderla.

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