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Cucina romagnola

Cucina romagnola. Amministrativamente unite, l’Emilia e la Romagna hanno tradizioni e usi alimentari e culinari largamente divergenti. Anche se la fama di opulenza e curialità della cucina emiliana è anch’essa «convenzione al limite della mistificazione, mito gastronomico e non verità alimentare» (Piero Camporesi), non c’è dubbio che la cucina romagnola è, in confronto, assai più povera, semplice e ruvida: «di gusto primitivo, quasi di fondo barbarico». In questo influisce dapprima la presenza di signorie piccole, turbolente e instabili - con la parziale eccezione di quella malatestiana -, con corti (e dunque mense) di non eccelso lustro, e poi il lungo e pesante dominio dello Stato della Chiesa.

I caratteri della cucina romagnola sono eminentemente contadini; l’apporto della cultura marinara è di scarso peso e non si estende oltre la costa. Il numero dei piatti è modesto; altrettanto modesta è la tradizione salumiera e casearia. Questa povertà ha indotto Max David a concludere sconsolatamente che «noi romagnoli non abbiamo una vera cucina romagnola». Di certo non si può spacciare il ricettario dell’Artusi, quantunque nativo di Forlimpopoli, per lo specchio della cucina tradizionale della Romagna, quando si tratta invece di una brillante e spregiudicata sintesi degli usi alimentari e gastronomici medio e alto-borghesi di tutta l’Italia centro-settentrionale, largamente indebitati con la cucina francese.

Nel 1913 Antonio Sassi arrischia un primo censimento della cucina «del popolo, che conserva buona parte delle vecchie costumanze». Il catalogo è di sole cinque voci: i cappelletti, i passatelli, le «pappardelle asciutte condite in perfetta regola», il pollo arrosto e la piada. Dei cinque piatti elencati tre sono minestre, e ciò non fa meraviglia, dal momento che la minestra - che un proverbio romagnolo definisce «biada dell’uomo» - è (scrive Camporesi) «il cardine del sistema alimentare» della Romagna. Attingendo all’ampia e precoce letteratura sulla cultura popolare romagnola (dal Cirelli al Battarra, dal Placucci al Bagli), è possibile recuperare altri piatti tradizionali, non tutti sopravvissuti; tra i primi piatti la «tardura» (una minestra di uova, formaggio e pan grattato che si usava servire alle puerpere), i «manfrigoli» , di rigore nella cena funebre, al ritorno dalle esequie, gli gnocchi, le lasagne e i maccheroni; tra i secondi piatti il galletto in umido, la carne lessa e la carne fritta; tra i salumi la salsiccia, il salame, il prosciutto e la coppa; tra i dolci i «bracciatelli», tonde ciambelle col buco.

Erano, questi, i piatti delle occasioni solenni, delle grandi feste del ciclo dell’anno (Natale e carnevale) e del ciclo della vita (nascita, nozze, morte). La cucina feriale era finalizzata a riscaldare e a corroborare (zuppe e minestre di verdure) o a tacitare brutalmente i morsi della fame (schiacciate, focacce, granitici dolci di farina di mais).

L’identità culinaria romagnola sta, piuttosto che in una lista di piatti caratteristici, in una somma di competenze naturalistiche, agricole, meteorologiche, dietetiche e gastronomiche; cioè in un complesso di saperi. Il primo e il più antico di questi saperi è - se la parola «cultura» non imbarazza - la «cultura delle insalate», cioè delle piante commestibili, sia coltivate che spontanee: decine e anzi centinaia di specie la cui sicura conoscenza, trasmessa di madre in figlia, ha resistito fin quasi ai nostri giorni. Di questo sapere, che accomuna la Romagna, il Montefeltro e la Marca pesarese, ci resta una straordinaria testimonianza cinquecentesca: la Lettera sulle insalate scritta nel 1565 dal medico Costanzo Felici. Catalogo ragionato di tutte le piante mangerecce, la Lettera censisce 180 varietà: oltre alle erbe che si consumano in [insalata] e a quelle che si usa cuocere, i bulbi, le radici, i frutti, le bacche, i cereali, i legumi, le spezie, i funghi e il «tartufano». Di numerose specie il Felici tramanda gli impieghi in cucina.

Una cultura ampia e raffinata è quella - strettamente connessa con le minestre - della sfoglia «fatta in casa»: che dev’essere, potendo, «smortadòva», cioè di farina e uova, senz’acqua di sorta; dalla sfoglia, più o meno sottile, si ricavano le tagliatelle, i tagliolini, i quadrettini, i maltagliati, gli strichetti (o farfalline), i malfattini, i garganelli del ravennate, nonché le paste ripiene come i cappelletti, il piatto natalizio per eccellenza, e i ravioli, con compenso di spinaci e ricotta. Di sfoglia senza uova sono i ritorti «strozzapreti». Nell’arte della sfoglia ha piena cittadinanza anche la preparazione della piada - spessa e austeramente scondita nel cesenate, sottile e trasudante strutto nel riminese e nel Montefeltro - e dei «cascioni» alle erbe dei campi.

Un sapere non meno ampio e raffinato, seppur ristretto alla fascia costiera, è quello dei pesci e delle altre creature marine. Chi abbia avuto occasione di conversare con un vecchio pescatore romagnolo, avrà potuto ammirarne l’eccelsa cultura ittica. Quondamatteo e Bellosi, in Romagna civiltà, elencano 165 specie di pesci, crostacei e molluschi dell’Adriatico col loro nome dialettale. Ne censisce 213, nel 1576, il giurista, letterato e naturalista Malatesta Fiordiano, autore di una Operetta della natura et qualità di tutti i pesci, che canta in ottave tutto ciò che vive e si riproduce nell’acqua marina e fluviale. Il vertice della cucina marinara è rappresentato dal «brodetto», che in Romagna si esige robusto e rude, denso di conserva di pomodoro, forte d’aceto e nero di pepe; le capitali del brodetto sono Cesenatico e Cattolica. Altrettanto deciso è il sapore del pesce in graticola (la «rustìda») e infilzato negli spiedini, protetto da una panatura all’aglio e prezzemolo. Le minestre di pesce - tolti il risotto, gli spaghetti alle vongole e i quadrucci alla seppia - sono tutte d’origine recente.

Un sapere che scinde la Romagna dall’Emilia e la accorpa alle regioni del Centro è quello della vite e del vino. Nel 1792 Giovanni Antonio Battarra si diffonde sulla viticultura per novantun pagine della sua Pratica agraria. I vini romagnoli più noti sono il rosso Sangiovese e i bianchi Trebbiano (d’elezione col pesce) e Albana, secca e amabile; meno popolari e da conoscitori sono il Pagadèbit, il Biancale, la Cagnina e il Rosso di Bosco.

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