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Edipo re (Sofocle)

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Attenzione, questo articolo contiene una trama

L'Edipo re è una tragedia di Sofocle, ritenuta il suo capolavoro.

La data di composizione è ignota; argomenti interni ed esterni al dramma, fanno supporre che debba essere situato al centro della sua attività artistica (430 a.C circa).

Trama

Edipo, re di Tebe, è impegnato a debellare una pestilenza che tormenta la sua città.
Il dramma si apre di fronte al palazzo del re, nel cortile gli altari agli dei sono circondati da una folla supplicante. In quel momento le porte del palazzo si aprono ed appare Edipo.
Il popolo si pone a cerchio attorno a lui, ed uno di essi, sacerdote di
Zeus, dice «O salvatore di Tebe. ancora una volta nella nostra afflizione noi ricorriamo a te, perché stiamo soffrendo per la pestilenza e per la carestia».
Edipo non è in grado di dare la soluzione, ma Creonte sta tornando da Delfi, dopo aver interrogato l'oracolo.
Arriva Creonte ed il re lo prega di parlare di fronte a tutti, affinché il popolo possa conoscere il responso.
L'oracolo dice che la città è contaminata dall'uccisione impunita del re Laio e che quindi se ne deve cercare il colpevole, quando questi sarà identificato e cacciato, torneranno pace e prosperità.
Edipo chiede altre informazioni a Creonte, il quale continua dicendo che al tempo in cui la città era sotto l'incubo della Sfinge, Laio stava andando a Delfi, quando lungo la strada fu assalito da briganti, da cui, secondo il racconto di un testimone, fu ucciso. Ma Edipo insiste, chiedendo come mai nessuno avesse cercato gli omicidi allora. Ma Creonte ricorda, che in quei tempi il problema che assillava la città era costituito dalla Sfinge e ci si preoccupava più della vita degli abitanti che di quella del proprio re.
Edipo assicura che non si darà pace fin tanto che non troverà l'assassino. Parlando agli anziani, dice che se l'assassino si denunciasse da solo la città sarebbe salva, e l'omicida non rischierebbe il bando, ma che se un tebano ha dato asilo a un colpevole, ne subirà le conseguenze.
L'indovino Tiresia viene portato fino all'ingresso del palazzo, dove rimane immobile, interrogato, bisbiglia, come se parlasse da solo, rifiutando di rispondere, in quanto in certe occasioni è meglio tacere per non richiamare altre sventure. Edipo insiste e Tiresia afferma che preferirebbe andarsene, permettendo a lui e al re di portare il proprio fardello.
Edipo si adira, intima a Tiresia di parlare, il vecchio non si decide e la sua collera aumenta. Al che, Tiresia, dice che occorre prima mettere ordine nella propria casa prima di cercare un colpevole fuori, quindi accusa formalmente Edipo come autore dell'omicidio, inoltre lo accusa anche di vivere scandalosamente ed incestuosamente.
Il re è indignato, gli ordina di andarsene. Ma chi è costui per permettersi di dire certe nefandezze. Crede forse di poter detronizzare il re? L'indovino risponde: «Io non ho nessun potere, sono nelle mani di Apollo, e ben presto ne sarà data la prova».
A queste parole Edipo sospetta di Creonte e di Tiresia, c'è la possibilità di un complotto tra i due per detronizzarlo? Edipo provoca nuovamente Tiresia, che afferma: prima che finisca il giorno, il colpevole sarà scoperto. Non è uno straniero, è un uomo che è nato a Tebe e che abita in città e ne ripartirà mendicante, aprendosi la strada con un bastone. Quest'uomo figlio e marito della stessa donna, è anche parricida.
Appare Creonte e chiede agli anziani se sia vero che Edipo lo crede colpevole di cospirazione. Al suono della sua voce, Edipo esce dal palazzo e lo accusa apertamente. Non si trovava a Tebe, insieme a Tiresia, quando Laio fu ucciso? Creonte gli risponde con veemenza di non avere interesse al suo trono, e, poiché lo considera bugiardo, di inviare lui stesso un messaggero a Delfi, per farsi dire la verità.
A questa situazione da esito Giocasta, vedova di Laio ed ora moglie di Edipo. Rimane incredula alle parole di Edipo, che accusano il fratello, quando queste gli vengono riferite dagli anziani. Essa invita il marito a non dare ascolto a nessun oracolo e a nessun profeta: anche a Laio era stata fatta una profezia, in cui era stato detto che sarebbe stato ucciso dal figlio, mentre l'unico figlio nato era morto da piccolo, esposto sul monte Citerone.
Laio non è stato ucciso da suo figlio, ma da banditi sulla strada per Delfi, là dove si incontrano tre strade. Edipo ripete: «Dove si incontrano tre strade?». Giocasta rimane colpita dal tono del marito, che la tempesta poi di domande. Dove si trova quel crocevia? In qual tempo Laio è morto? Viaggiava sotto scorta o con un carro solo? Chi portò la notizia a Tebe?
Le risposte di Giocasta non fanno che aumentare il turbamento di Edipo, che chiede di far venire a lui il testimone dell'omicidio, che aveva chiesto di poter restare lontano da Tebe, in quanto per lui segnata da crudeli ricordi.
La regina accetta di farlo cercare, ma chiede al marito il motivo del suo turbamento. Edipo racconta a lei e agli anziani la propria giovinezza, di quando era principe ereditario di Corinto, dove rimase fino a che un giorno, un ospite sotto gli effetti del vino, gli aveva rimproverato di non essere figlio legittimo di Polibo. Di come si fosse recato a Delfi, per avere una risposta dall'oracolo, dove gli fu predetto che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre e che, per evitare tutto ciò, come avesse abbandonato la sua casa.
Sulla strada tra Delfi e Tebe aveva incontrato un uomo altero a un crocevia, dove si uniscono tre strade e di come l'avesse ucciso. Se quell'uomo fosse stato Laio? Se lui, re di Tebe, fosse stato l'omicida? Che fosse lui l'essere impuro? e se fosse così, dove avrebbe potuto andare? Non certo a Corinto, dove avrebbe potuto essere causa di sventura per i suoi genitori. Ma il testimone parla di briganti, lui era solo, non può quindi essere lui l'assassino.
Giocasta cerca di calmare il marito, ed anche il capo degli anziani gli assicura il proprio rispetto. Occorre trovare il testimone e fargli dire la verità. Edipo e la moglie si allontano.

Turbati, gli anziani meditano sulla fragilità umana, mentre Giocasta depone un'offerta al dio Apollo, pregandolo di venire in aiuto ad Edipo.
Uno straniero giunge nel cortile del palazzo, l'uomo chiede di Edipo, re di Tebe. Giocasta gli si presenta e lo straniero l'avverte che Polibo è morto e che il trono ora è di Edipo. Giocasta manda a chiamare il marito, felice nel vedere tutte le sue preoccupazioni svanire, anche questa volta l'oracolo ha fallito, Edipo non potrà più uccidere il padre e ritroverà la pace.
Edipo è rassicurato da quelle parole, ma per certezza, chiede notizie della madre. Stupito, il messaggero chiede una spiegazione. Edipo ripete quello che ha rivelato agli anziani, ma il corinzio lo rassicura pienamente: può tornare a Corinto senza temere e regnarvi in pace, Polibo e Merope non erano i suoi genitori naturali, ma era stato adottato. Il messaggero può testimoniarlo, perché un tempo faceva il pastore sul monte Citerone ...
Giocasta indietreggia con gli occhi sbarrati, il corinzio continua, affermando che Edipo gli era stato consegnato da un amico, anch’esso pastore, che aveva ricevuto l'ordine di abbandonarlo sulla montagna. Fu lui a liberargli le caviglie legate e dargli il nome Edipo, e a condurlo a Corinto.
Edipo chiese chi fosse il pastore, venendo a sapere che era un servitore di Laio e che forse gli anziani lo conoscevano. Gli anziani lo indicano come l'uomo che stavano aspettando, il testimone del delitto.
Giocasta, con voce rotta, balbetta che non si deve frugare nel passato. Edipo vuole sapere, ma lei lo supplica di non ricercare la verità.

Arriva l'uomo che Edipo attende con tanta impazienza. Due servitori lo conducono di fronte al re. Gli anziani lo riconoscono, è l'uomo di fiducia di re Laio. Il corinzio conferma, è l'uomo che gli ha affidato il bambino. Il corinzio insiste: «Vedi», indicando Edipo «adesso quel bambino è re di Tebe».
Il pastore guarda Edipo con orrore. Guarda il corinzio gridandogli di porre freno alla sua lingua. Edipo ristabilisce la calma, ma chiede al pastore che ne sia stato del bambino. Tempestato di domande, il vecchio rivela i segreti del suo signore. Conferma di aver consegnato il bambino al corinzio, ma che quel bambino non fosse il suo, e che aveva avuto l'ordine di abbandonarlo. Il bambino veniva dalla casa di Laio, ma non era figlio di uno schiavo, doveva essere figlio di Laio stesso. È stata la regina stessa a consegnarmelo, in quanto temeva una profezia: il piccolo avrebbe ucciso il padre.
Edipo è al colmo della disperazione: «Perché, ma perché non aver obbedito agli ordini?».
Vacillando, Edipo si precipita nel palazzo. Un silenzio di morte gela gli astanti.
I servitori fanno uscire il pastore, seguito dal corinzio. Il salvatore di Tebe è divenuto burattino degli dei: destinato alla morte, ne sfugge soltanto per divenire parricida e incestuoso.
All'improvviso, arriva un grido, un'ancella sulla porta del palazzo, pallida di orrore, sta per annunciare una nuova calamità.
Edipo si è trafitto gli occhi con due fibbie, mentre Giocasta si è strangolata con un laccio. In quel momento appare Edipo, barcollante, dando sfogo al suo dolore nelle tenebre in cui si è sprofondato. Il capo degli anziani gli si avvicina e gli parla, con dolcezza e fermezza. Edipo ne è commosso, anche perché tutti gli altri, invece, si allontanano da lui.
In quel momento arriva Creonte, piangendo il destino tragico della sorella, straziato da quella scena chiede alle guardie di sostenere il re e di riportarlo nel palazzo. Il dramma che si è svolto riguarda solo la casa reale, non conviene che quindi il mondo ne sia testimone. Edipo si rivolge a Creonte, chiedendogli il permesso per lasciare la città e di rendere a Giocasta le onoranze funebri che le spettano.
Supplica Creonte di vegliare sulle figlie, Antigone e Ismene. Creonte lo rassicura: Edipo non deve temere per le sue figlie o i suoi figli, in quanto principi della casa reale di Laio.
Creonte gli promette che tutto sarà fatto secondo i suoi desideri e che la sua sorte sarà decisa da Apollo.
Edipo viene ricondotto a palazzo, Creonte, eletto reggente, lo segue. Gli anziani, immobili, guardano le porte del palazzo che si chiudono.

L'opera

Non esistono drammi precedenti sul mito di Edipo e le conoscenze delle fonti sono alquanto limitate.
Questo semplifica il problema critico, rendendolo però più grave, per la facilità con cui tale poesia può trarre giudizi tanto più seducenti quanto più arbitrari.

Nell'animo di Edipo, si trova quanto di più umano si possa pensare: intelligenza e autorità. Questo mortale che svelò il mistero della Sfinge, chiamandosi altezzosamente "figlio della Fortuna" non si perita di oltraggiare dei e deridere vaticini: in lui è presente un germe di peccato originale, a causa del quale la sua saggezza e potenza si trasformano in follia e rovina.
Fin dal suo apparire, la sua figura è un'ombra nel buio. Egli, l'accorto, l'esperto, non vede nulla, non si accorge di quanto gli accade intorno.
Anche quando la verità gli appare chiara, per lui è talmente incomprensibile ed assurda, da portarlo ad un gesto che lo renda cieco, come se così gli potesse essere più facile il non vederla.

La critica ha definito l'Edipo re come un dramma a tesi: il destino travolge gli uomini e gli dei puniscono il peccatore. Nel dramma appare chiaro il problema della libertà: le cose degli uomini sono guidate dagli uomini o da altre necessità?
Sofocle è lontano da l'impostare la sua poesia su questo punto di vista, egli vede il problema solo nel suo attuarsi, che è poi anche il suo effettivo crearsi, lo sente vivo in quel dramma, universale ed eterno, che è l'umanità.
Edipo è un uomo, un uomo nel quale vivono tutte le contraddizioni, da cui nascono tutti i problemi, per cui la vittoria è sconfitta e la sconfitta trasfigurazione.
L'arte di Sofocle di accentrare il dramma attorno ad un unico personaggio, a lui abituale, trova in quest'opera il suo culmine, mostrando tutti gli aspetti dell'uomo.
In altre sue opere, come nell'Antigone (la fede religiosa) o nell'Aiace (il senso morale), appare solo un aspetto di questa umanità.
La cecità di Edipo è sia una metafora che una realtà, che sommerge con un'unica tonalità poetica mondi logici e mondi fantastici.
Sofocle porta l'uomo al più basso grado di abiezione e di miseria, per poi risollevarlo e purificarlo in un alito di compassione; gli attribuisce i delitti più orrendi per poi compiargerlo nella rovina.
Ma è proprio distruggendolo che lo ha ricreato.

I personaggi di Sofocle parlano tutti bene, e noi siamo inclinati a dar ragione a l'ultimo che parla. Goethe


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